“Per la destra italiana, da sempre, sicurezza e lotta alla corruzione sono valori non negoziabili“. Annunciando il sostegno ai referendum sulla giustizia promossi da Lega e Partito radicale, Giorgia Meloni sfida Matteo Salvini sul suo terreno. Spiega che Fratelli d’Italia raccoglierà sì le firme, ma non per tutti e sei i quesiti depositati: “Faranno eccezione, nei nostri gazebo, quello sulle misure cautelari e quello sulla legge Severino, figli più della legittima cultura radicale che quella della destra nazionale. La proposta referendaria sulla carcerazione preventiva impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini. Noi vogliamo fermare la criminalità senza se e senza ma”. E abrogare la legge che sancisce l’incandidabilità per i condannati definitivi, aggiunge, sarebbe “un passo indietro nella lotta alla corruzione e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire dai pubblici uffici”.

Insomma, quello che per i sondaggi è ormai il primo partito italiano sponsorizza i quattro quesiti sulla magistratura (niente più firme per candidarsi al Csm, responsabilità diretta, diritto di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari e separazione delle carriere) ma non i due di diritto sostanziale, che vorrebbero allargare le maglie della legge penale abolendo la custodia cautelare per la maggior parte dei reati (compresi quelli di strada) e lo stop all’incandidabilità per i politici condannati. Meloni, con una spiegazione a suo modo coerente, si è tirata fuori da queste due battaglie di marca molto radicale e molto poco securitaria. Una mossa che ha l’effetto di sottolineare – per contrasto – la posizione innaturale tenuta finora Salvini: come ha notato Piercamillo Davigo sul Fatto, “la Lega si qualifica come partito di destra e – in tutto il mondo, ma evidentemente non in Italia – la destra vuole legge e ordine“. Come conciliare, per esempio, la legittima difesa domiciliare, totem del Carroccio, con il sostegno a un referendum che impedirebbe di tenere in carcere persino un ladro colto in flagrante?

Domande che pongono in serio imbarazzo il leader leghista nei confronti del proprio elettorato storico. Per accorgersene basta scorrere le pagine social: su Facebook, dove il Capitano ha condiviso i sei quesiti accompagnati dallo slogan “Chi sbaglia paga!”, è facile far notare l’incoerenza del messaggio. “Chi sbaglia paga deve valere anche per i politici, abolire la legge Severino significa favorire il rientro di politici condannati amici degli amici”, scrive Giampiero. Evandro: “Avrei un dubbio sulla custodia cautelare, che a oggi sono gli unici giorni di galera che fanno i delinquenti, soprattutto i corrotti”. Riccardo: “Cioè, uno come te che si lamenta perché i delinquenti vanno in giro e non sono in galera vuole limitare le misure di custodia cautelare? Ma ti sei confuso col copia e incolla?”. A spiegare la posizione di Salvini potrebbe essere un tentativo di ricollocamento verso le posizioni garantiste di Forza Italiacon cui, non a caso, in queste settimane sono in corso colloqui in vista di una federazione – rinunciando a contendere l’elettorato di destra legalitaria a Fratelli d’Italia, la cui forza nei sondaggi appare inarrestabile.

Nel frattempo i promotori del referendum comunicano di aver superato, alle 17 di domenica, le 100mila firme raccolte su 500mila da raggiungere entro il 30 settembre, per poter tenere il referendum nella primavera 2022. “Una risposta popolare incredibile, supereremo il milione”, esulta Salvini. Che, a una domanda sulla Severino, risponde che la legge “impedisce la candidatura di sindaci anche senza una condanna in via definitiva. Invece io il sindaco lo voglio tutelare dal punto di vista economico e giuridico. Ne ho visti troppi decaduti, indagati, arrestati e poi assolti e senza che nessuno abbia pagato”. Tra i personaggi pubblici che si sono recati ai gazebo c’è di tutto: Vittorio Feltri, Roberto Giachetti, Hoara Borselli, David Parenzo e persino Luca Palamara (uno dei claim leghisti per la campagna è “stop casi Palamara”). E Paolo Mieli, giornalista ed ex presidente Rai che a Libero accusa il Partito democratico di “far festa” e “marciarci sopra” ogni volta che un avversario finisce coinvolto in guai giudiziari. “È chiaro che i dem non metteranno mai mano alla magistratura”, sostiene, “hanno un vantaggio troppo evidente“.

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