La parola “transizione” esordisce nei primi anni 70. Uno dei libri più influenti dell’epoca – I limiti della crescita (1972) era il titolo originale, mal tradotto in italiano con Limiti dello sviluppo – insisteva parecchio sulla necessità di “transitare” da un modello di crescita indefinita a un modello di equilibrio globale. E sottolineava i rischi ecologici prodotti dalla crescita economica e demografica, assieme alla estinzione di parecchie risorse non rinnovabili del pianeta. Alcune previsioni di quel rapporto si rivelarono sbagliate, con il senno di poi. Ma faccio umilmente osservare come la proiezione della concentrazione di CO2 risulti oggi sorprendentemente accurata, tenuto conto del modello rudimentale con cui fu condotta.

Più tardi, il Rapporto Brundtland (1987) raccomandava la transizione verso lo “sviluppo sostenibile”. La norvegese Gro Harlem Brundtland era la presidentessa della Commissione mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (World Commission on Environment and Development, Wced) istituita nel 1983. Nel suo paese aveva promosso, in quegli anni, la campagna “Save the rain”. Il Rapporto Brundtland – “Our common future” – suggeriva una concreta linea guida per lo sviluppo sostenibile, ancora valida tutt’oggi.

Due fattori mettevano – e mettono – in pericolo l’ambiente: la grande povertà del sud del mondo e i modelli insostenibili di produzione e consumo del nord. Per fronteggiare il pericolo del degrado ambientale, globale e irreversibile, una strategia efficace avrebbe dovuto integrare le esigenze dello sviluppo (economico ma non esclusivamente) con quelle di tutela dell’ambiente. Lo sviluppo sostenibile diventò in seguito uno slogan, usato e abusato negli anni a venire, spesso declinato nei fatti come un ossimoro.

La transizione ecologica, promossa al di là e al di qua dell’oceano Atlantico per invertire la spirale negativa della pandemia, è un nobile tentativo. Senza i due pilastri della Brundtland, lo sforzo è destinato a fallire. Le politiche messe in moto possono essere utili a puntellare il sacrario del Pil. Se si limiteranno al greenwash, la maschera che copre ciò che si sta pianificando in concreto, queste politiche non saranno in grado di invertire la tendenza declinante degli ecosistemi, del clima, del benessere umano.

La rinascita – ricca e verde – del mondo occidentale rimane ancorata a una illusione: la fede nelle ricette liberiste e tecnocratiche, fattori non irrilevanti della catastrofe pandemica. I driver della crisi sono davvero quelli più appropriati per uscirne? L’importante per i governi non sarebbe fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio; ma fare le cose che al momento non vengono fatte per nulla, come sosteneva Keynes.

Il pericolo del bagno di sangue, correttamente adombrato dal ministro italiano per la Transizione Ecologica, diventa pressoché una certezza se la transizione obbedisce alla mistica ordo-liberale. Ha senso affidare al mercato, scandito dal cronometro dei millisecondi delle transazioni automatiche di borsa, una pianificazione che deve giocoforza traguardare il lungo termine? La transizione governata dal mercato è capace di estirpare la grande povertà del sud del mondo e modificare i modelli insostenibili di produzione e consumo del nord?

Se il mercato potrebbe alleviare la povertà o almeno non farla aumentare, esso può lavorare ben poco sul secondo obiettivo; forse, soltanto sui modelli produttivi quando non sono dipendenti da quelli di consumo, che sono la chiave di volta della transizione. Soltanto la consapevolezza collettiva può orientare i modelli di consumo verso l’equilibrio invocato dalla Brundtland e dal Club di Roma, l’associazione non-governativa che promosse lo studio pionieristico sui limiti della crescita. La catastrofe della pandemia ha stimolato questa consapevolezza?

Anziché alla mano invisibile del mercato, meglio sarebbe affidarsi a tutti coloro che vogliono contribuire alla cura delle comunità, dei territori, degli ecosistemi. E non mettersi nelle mani di coloro (e dei loro fedeli eredi) che accolsero con sufficienza e scherno le preoccupazioni delle cassandre che, cinquanta e poi trent’anni fa, rivelavano il pericolo dello sfinimento del pianeta.

Quando pubblicai il mio primo libro divulgativo sul riscaldamento globale e sul pericolo di una rapida, forzata evoluzione del clima (1994) fui accolto da un coro di risolini e rimproveri. All’unisono, fecero spallucce influenti colleghi accademici e i loro giovani adepti, la casta mediatica, l’ambiente produttivo; e qualche Pierino biasimò la perdita di tempo su questioni del tutto irrilevanti, inconsistenti, improbabili. Sono gli stessi influencer che controllano oggi il mondo della scienza, dei media, dell’economia. Costoro brandiscono il cambiamento climatico come una clava, in modo del tutto acritico e funzionale, facendo sorgere il sospetto che, per loro, si tratti solo di un business d’occasione, da cavalcare senza troppi fronzoli. E tanti meno scrupoli.

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