Il termine 'morbo' definisce un'entità astratta che non può essere fermata, perché talmente radicata nel vasto regionalismo spagnolo da coincidere con la Spagna stessa, con le sue diverse culture, politiche e identità. Per questo si cerca di combatterlo, con un'attenzione spasmodica che produce una serie di controsensi, come quelli della casa della nazionale di calcio, a La Cartuja di Siviglia, dove il caldo è così afoso che l'erba brucia. Un biglietto da visita non buono per gli Europei, sacrificati sull'altare della neutralità
In Spagna la neutralità è diventata un’ossessione, e le radici di questo fenomeno si trovano nel concetto di Morbo delineato vent’anni fa dallo scrittore inglese Phil Ball, che al calcio spagnolo dedicò un libro ancora oggi godibilissimo. Morbo non è un termine facilmente traducibile. Troppo riduttivo definirlo rivalità, anche se da questa nasce e si (auto)alimenta in modo esponenziale, permeando tutti gli elementi della società legati, più o meno direttamente, al calcio. Morbo è un’entità astratta che non può essere fermata, perché talmente radicata nel vasto regionalismo spagnolo da coincidere con la Spagna stessa, con le sue diverse culture, politiche e identità. Athletic Bilbao, Barcellona, Real Madrid: esiste una letteratura infinita sugli intrecci tra pallone, politica e società. La neutralità è nata per contenere, arginare e disinnescare questo Morbo ma ha finito con il generare un nuovo isterismo, affiancandosi al precedente senza sostituirlo.
La Spagna è un paese diviso anche sull’inno nazionale, o meglio, sulle sue parole. La Marcha Real, o Marcha Grenadera, è muta per scelta. Una volta le parole le decidevano i monarchi spagnoli in carica, fino a quando un testo ufficioso venne imposto da Francisco Franco. La morte del Caudillo nel 1975 ha fatto tabula rasa di tutto, lasciando la musica senza le parole. Negli anni successivi non sono mancati, oltre alle versioni locali del testo, tentativi di riscrittura della parole (da ricordare almeno quella del 1997 promossa da gruppo di scrittori, quella del 2007 commissionata dal Comitato Olimpico Spagnolo e la proposta nel 2012 del movimento Ciudadanos), senza però mai ottenere ampi consensi. In un contesto così frazionato e parzialmente lacerato da spinte indipendentiste, la neutralità è diventata un’ossessione, arrivando talvolta anche a sfidare il buonsenso.
Lo spazio neutro del calcio spagnolo si chiama La Cartuja, impianto costruito in occasione dei Mondiali di Atletica del 1999. Si trova a Siviglia, accanto al fiume Guadalquivir, ed è l’unico stadio neutrale del paese. La Cartuja non appartiene a nessun club, ma è gestito da una società partecipata pubblica con quote ripartite tra la Giunta dell’Andalusia, il governo spagnolo, Comune e Provincia di Siviglia, con un solo 3% di capitale privato (due banche e le due squadre cittadine, Betis e Siviglia). La Cartuja è diventata la Wembley spagnola, nonostante sia ubicata solo nella quarta città più popolosa del paese. La terza, Valencia, era l’altra candidata a diventare la sede stabile per le partite della Spagna (come già avvenuto nel Mondiale dell’82), ma alla fine ha vinto la neutralità. Stesso discorso per la Copa del Rey, le cui finali fino al 2023 si disputeranno nello “stadio di tutti”.
Si parlava di sfida al buonsenso. Giocare a giugno di pomeriggio a Siviglia, una delle città più calde della Spagna, si avvicina molto al concetto. La Spagna non ha fatto una grande figura alla Cartuja, né in campo contro Svezia e Polonia, né a livello organizzativo, presentando un manto erboso in cattive condizioni a causa dell’effetto scalping, ovvero il danno da taglio dell’erba troppo basso (chiesto esplicitamente da Luis Enrique contro il parere dei manutentori del campo) che ha prodotto la comparsa di erba secca, sfilacciata e giallastra. Un fenomeno che il caldo soffocante ha intensificato, per un biglietto da visita certamente non esaltante per la casa della nazionale spagnola. Proprio i suoi inquilini sono stati i primi a non gradire, riprendendo un concetto già espresso mesi prima da Xavi. “Nel calcio”, ha detto il 133 volte nazionale spagnolo, “il terreno di gioco è una delle cose più importanti, ma solo chi ha giocato a calcio può capirlo. Guardate gli altri sport: nel basket il campo viene pulito in continuazione, nel tennis se piove ci si ferma e vengono subito messi i teli. Sull’erba secca, con la palla che ti resta attaccata, non riesci a dribblare, mentre sull’erba bagnata alla palla puoi farle fare ciò che vuoi tu”. Dal momento che a Siviglia fa caldo tutto l’anno, il problema è destinato a presentarsi in continuazione.
La neutralità può a volte diventare anche un comodo paravento per giustificare decisioni politiche. La Cartuja non era la prima scelta della Federcalcio spagnola (RFEF) per Euro 2020, dal momento che Ángel María Villar, predecessore dell’attuale presidente Luis Rubiales, aveva optato per Bilbao, poi esclusa dalla Uefa a causa delle misure di sicurezza legate al Covid-19 imposte dal governo. Quale miglior occasione per riportare l’Europeo nel cuore della Spagna, ovvero Madrid, utilizzando il meno divisivo Wanda Metropolitano? Il problema, stando a una ricostruzione di El Confidencial, ha un nome e cognome: Isabel Diaz Ayuso, ovvero l’astro nascente della destra spagnola, fresca del trionfo alla elezioni amministrative per la regione di Madrid. L’Europeo nella casa dell’Atletico sarebbe stato l’ennesimo mattone posato sulle fondamenta del consenso popolare costruito dalla Ayuso, fortificato anche dalla campagna “Madrid riapre” in contrasto con la politica più attendista del governo. Un mattone che Rubiales, di famiglia socialista e molto legato all’attuale premier Pedro Sanchez, le ha sottratto volentieri, forte anche del poco gradimento di cui gode Ayuso in seno al Partito Popolare con le sue molteplici correnti (anche l’Andalusia è governata dai popolari, ma la fazione in carica è più ostile a Ayuso dei socialisti stessi). Facile quindi giocarsi la carta della neutralità della Cartuja, la Wembley defilata, e un po’ spelacchiata, del calcio spagnolo. Anche questo è Morbo.