Il 20 maggio del 1992 il Barcellona batte la Sampdoria in finale di Coppa dei Campioni. Johann Cruyff esulta. Roberto Mancini continua a protestare con l’arbitro. Da quel giorno, “Macho” medita la rivincita.
Boston, 9 luglio 1994, Mondiale Usa. L’Italia affronta la Spagna. Dopo un’ora, si è sull’1-1. Nelle fasi più concitate, Luis Enrique si becca in area una gomitata di Mauro Tassotti. L’arbitro non vede. Proteste inutili. All’88esimo, segna Roberto Baggio. Sei minuti di recupero, un’agonìa per la Spagna che assalta la porta difesa da Pagliuca, ma non pareggia. La Roja è eliminata. “Lucho” Enrique non lo dimenticherà mai. Da allora, medita la rivincita.
Italia e Spagna di oggi sono figlie di quelle memorie, cariche di delusioni, ma anche di una gran voglia di riscatto: sono, a ben vedere, un progetto covato da molto tempo. Da chi sogna e sa che quello che sta facendo non è utopia. È coerenza con le personalità e il carattere di Luis Enrique e di Roberto Mancini. Li hanno definiti, non a caso, “hombres verticales”. Uomini d’un sol pezzo, grandi motivatori, affabili o duri all’occorrenza col mondo esterno, pur di proteggere “il gruppo”, e per tutelarne lo spirito. Per capirci, Luis Enrique non ha convocato nessun giocatore del Real Madrid. Un’eresia. Uno schiaffo al potere. Una rivoluzione. E pure Mancini non si è piegato alle logiche dei “cartelli” di club. Ha badato al sodo. Ha portato chi ritiene utile al suo pensiero di gioco, senza prostrarsi alle richieste dei potenti procuratori.
C’è tanto senso dell’impresa, nella squadra azzurra, ma pure nella Roja: sono infatti tutte e due in rifondazione. I loro giocatori lo hanno capito. E hanno condiviso le idee di Roberto Mancini e Luis Enrique, veri leader delle loro nazionali. Anzi, di più: profeti. Azzurri e Furie Rosse in questo Euro hanno mostrato tenuta mentale. Carattere. Compattezza. Uno per tutti, tutti per uno. Non ci sono tra di loro capricciosi divi della palla, egocentriche primedonne o fuoriclasse “galacticos”: quelli che altre squadre schieravano sono tornati tutti a casa con le pive tra i piedi. Ricordatevi il dispetto di Ronaldo, l’umiliazione di Mbappé, la frustrazione di Lewandoski… Però, nelle due formazioni c’è parecchio talento. La buona gioventù del calcio… Prosperano entusiasmo e convinzione. Entrambe le squadre, se ci avete fatto caso, scendono in campo con la grinta di chi deve difendere Fort Alamo sino all’ultimo sospiro. La differenza sostanziale è che non vogliono finire sconfitti e martirizzati come l’eroico Davy Crockett, non vogliono assolutamente perdere la battaglia.
Per questo, hanno atteggiamenti da rivoltosi arrabbiati e determinati. Sono uomini di un calcio apparentemente ordinario che insieme fanno la differenza. Perché dentro hanno coltivato certezze molto concrete. Il loro cantiere di gioco è ribollente, a tratti maestoso, a volte avventuroso. Ogni volta che spingono la palla in avanti, è come se spingessero avanti i loro destini comuni, le loro speranze comuni, il loro futuro comune. Il calcio esalta l’individualità, ma è la squadra che lo permette, perché questa è la formula del successo.
Peccato che due squadre così sorelle, così simili, debbano battersi in semifinale e non in finale. Sarà come vedersi allo specchio. Entrambe create per attaccare, ma attente anche a non prendere gol. Noi, con la cultura della difesa ben organizzata e i cromosomi del catenaccio, all’occorrenza. Loro, con il lezioso ma astuto tiki-taka. Il problema è che sia l’una che l’altra hanno proprio nel possesso del pallone la loro identità. Tutte e due praticano il dogma della costruzione dal basso. Talvolta, gli spagnoli, con esiti suicidi (il comico autogol di Unai Simon…). Noi, con passaggi alla Hitchcock. Semmai, se l’Italia ha un vantaggio rispetto alla Spagna, è la sua formazione estesa. Mancini ha plasmato Unità e Fratellanza. Nessuno è meno degli altri. I panchinari non sono cornice, ma parte del disegno.
Lo dimostra l’esemplare storia di Emerson Palmieri, nato a San Paolo, in Brasile, 26 anni fa. Difensore del Chelsea campione d’Europa, che lo ha reclutato nel 2018 (con Jorginho, altro brasileiro di Santa Caterina naturalizzato italiano). Nel gennaio del 2020 Frank Lampard lo relega in panchina. Emerson ha litigato con lui? No. Ha avuto problemi personali? Macché. È una punizione perché non si allena come dovrebbe? No. Solo che gli ha tagliato la strada Ben Chilwell, pagato 50 milioni di euro, inglese. Sembra la trama di un racconto di Kafka. Una spirale micidiale.
Palmieri gioca spezzoni di partite. Quindici: 13 vittorie, due pareggi. Insomma, non perde mai. Non gioca però in Premier dal 21 dicembre. Il 21 marzo disputa l’ultima partita intera di Coppa. Poi, giusto un minuto col Porto, nei quarti di Champions. Un altro minuto agli ottavi, contro l’Atletico. Ma che minuto! Entra al 93esimo, al 94esimo fulmina il portiere Oblak con un tiro incrociato. L’allenatore Thomas Tuchel, coda di paglia, dichiara: “Sono felice per lui. Perché ha sofferto tanto per colpa delle mie scelte. In allenamento fa sforzi incredibili. È super professionale e super simpatico”. Dicono che Tuchel si pieghi alle pressioni della società che ha puntato molti quattrini su Chilwell. Ma Emerson sopporta tutto con grande pazienza. Tanto, in lui crede Mancini.
Il gravissimo infortunio di Leonardo Spinazzola lo ha portato, malgrado lui, alla ribalta. Una responsabilità enorme, perché Spinazzola era il migliore degli Azzurri, colui che spaccava le partite. Il calcio è gran teatro narrativo. Racconta che le speranze diventano opportunità, occasioni. Spesso, compensazioni. Ma a Wembley ritroverà tra gli spagnoli che non vogliono far rimpiangere la formidabile stagione della Generación Dorada (due titoli europei e uno mondiale dal 2008 al 2012) il 31enne roccioso difensore César Azpilicueta, compagno suo (e di Jorginho) nel Chelsea, di cui è il capitano. Dunque, forse per Emerson Palmieri c’è compensazione. Ma anche castigo.