Idolo del Valencia, una volta appese le scarpe al chiodo si occupa di architettura sportiva. Quello di stasera per lui non è un match come altri: "Tiferà per gli azzurri ovviamente, sono una squadra giovane e talentuosa, che propone un calcio differente rispetta alla sua tradizione, nonostante molti giocatori non abbiano una grande esperienza internazionale. Mancini l'ha saputa innovare, portando una ventata di freschezza ad un movimento che ne aveva bisogno"
Italiano di nascita, spagnolo di adozione. Dal 1997, quando ha lasciato Roma per diventare un idolo del Mestalla, la vita di Amedeo Carboni è sospesa tra due Paesi: “Sono arrivato al momento giusto. La Spagna in quel periodo godeva del famoso sgravio fiscale per gli stranieri. Questo ha favorito l’arrivo di grandissimi calciatori come Ronaldo, Zidane, Beckham e Figo“, racconta. “I 9 anni in cui ho indossato la maglia del Valencia sono considerati i più importanti della storia del club. Abbiamo vinto due volte il campionato, interrompendo il monopolio di Barcellona e Real Madrid, e in più abbiamo giocato e perso due volte la finale di Champions League. Ci siamo, però, rifatti in Coppa Uefa, che abbiamo vinto nel 2004″, aggiunge.
Se da un lato la scelta di traslocare in Spagna ha portato con sé innegabili soddisfazioni, però, dall’altro ha probabilmente condizionato in negativo la sua carriera in Nazionale, facendolo finire fuori dai radar azzurri prima dei Mondiali francesi nel 1998. “Senza dubbio lasciare l’Italia ha pregiudicato un po’ il mio discorso con la Nazionale. All’epoca – continua – quando lasciavi la Serie A per andare all’estero, perdevi molta più visibilità rispetto a quello che può accadere magari adesso. E questo ti portava a finire fuori dal giro della Nazionale. Ricordo che successe qualcosa di simile anche a Gianfranco Zola quando si trasferì in Inghilterra, al Chelsea”. spiega, anche se precisa di non avere rimpianti.
Quattro anni prima, invece, era stata la sfortuna a fargli perdere il biglietto per USA ’94: “A causa di un crociato persi il Mondiale statunitense. Quando mi infortunai, nel novembre del 1992, ero stabilmente nel giro della nazionale. Dopo il torneo, comunque, sono riuscito a rientrare nel club azzurro“. E lo ha fatto in grande stile, tanto da guadagnarsi la convocazione per l’Europeo inglese del 1996. Sull’Italia vicecampione del mondo, guidata da Arrigo Sacchi, c’erano molte aspettative, ma gli azzurri non riuscirono a superare la fase a gruppi: “Quell’anno eravamo una squadra molto forte. Certo, va detto anche che abbiamo avuto la sfortuna di essere inseriti in un gruppo della morte con Germania e Repubblica Ceca, le due future finaliste”, racconta. “A mio avviso ci fu anche parecchia malasorte. Con la Repubblica Ceca prendemmo gol dopo essere rimasti in dieci per l’espulsione di Apolloni, mentre nella partita decisiva con la Germania, che dovevamo assolutamente vincere per passare il turno ma che poi finì 0-0, sbagliammo un calcio di rigore“.
Successivamente, con l’avvicendamento in panchina tra Sacchi e Cesare Maldini, lo spazio in azzurro per Carboni si è sensibilmente ridotto. L’ex laterale sinistro aretino, che aveva già avuto Sacchi come allenatore ai tempi della Primavera della Fiorentina, però, non conserva alcun rancore: “Con Sacchi ho ancora oggi un rapporto splendido. Ci incontriamo spesso e ultimamente ci siamo sentiti anche telefonicamente”. “Ma pure con Cesare Maldini, tuttavia, ho sempre avuto degli ottimi rapporti, nonostante con lui c’è stato meno spazio in azzurro. Ripeto, non ho nessun rimpianto tecnico. Voglio dire: in quel periodo la concorrenza era molto agguerrita e io avevo davanti suo figlio, Paolo Maldini, un grandissimo giocatore“, ammette con molta onestà.
L’ultima presenza con la nazionale l’ha fatta in un anonimo Polonia-Italia (0-0) del 1998. Decisamente più commovente, invece, è stata la sua ultima in assoluto, con il Valencia, quando tutto il Mestalla ha indossato la sua maglia numero 15 per tributargli il meritato omaggio nel giorno del suo addio al calcio. In Spagna, dove è rimasto a vivere, oggi Amedeo Carboni si occupa di architettura sportiva. “Anche qui temono molto l’Italia. Il ricordo del 2016 è vivo, anche se il bilancio recente dei confronti con gli azzurri sorride alla Spagna“, confida. C’è, però, la sensazione che quella di Luis Enrique sia una Roja per così dire “minore”: “La Spagna può anche vincere questo Europeo. Possiede le qualità per farlo, ma i giocatori della vecchia guardia appartenevano ad un’altra dimensione“. Anche Carboni, come molti opinionisti spagnoli, è convinto che nella fase decisiva del torneo la Spagna potrà pagare a caro prezzo la mancanza dei caudillos del Real Madrid, cosa che non capitava dalle Olimpiadi di Anversa del 1920: “Tenere fuori i giocatori del Real Madrid è sicuramente una scelta molto forte. Penso che si possa far sentire soprattutto l’assenza di Sergio Ramos, anche se nell’ultimo periodo è stato tormentato da infortuni e beghe contrattuali. Vedi il gol che hanno preso con la Polonia, dove Lewandowski con malizia riesce a spostare il centrale spagnolo prima di colpire di testa. Ecco, con Ramos sarebbe successo il contrario”.
Punti deboli che dovrà essere brava ad evidenziare la squadra di Mancini, una Nazionale che lo entusiasma: “È un’Italia giovane e talentuosa, che propone un calcio differente rispetta alla sua tradizione, nonostante molti giocatori non abbiano una grande esperienza internazionale“, spiega. “Mancini l’ha saputa innovare, portando una ventata di freschezza ad un movimento che ne aveva bisogno. In più, secondo me la vittoria contro il Belgio ha regalato maggiore personalità e consapevolezza agli azzurri per arrivare sino in fondo”. Per Amedeo quello di stasera sarà un po’ il suo derby personale. Forse anche per questo non se la sente di fare un pronostico, ma una cosa ci tiene a farla sapere: “Sono italiano e quindi tiferò Italia, non scherziamo. Quando ci si trova all’estero, poi, questo sentimento viene percepito anche in maniera più amplificata. Per cui Forza Azzurri“.