di Carmelo Sant Angelo

“Beati gli ultimi” purché non siano in custodia nelle mani dello Stato. Ha ancora senso parlare di “episodi” riguardo ai trattamenti inumani o degradanti, intenzionalmente inferti da coloro che esercitano funzioni di vigilanza e cura sulle persone affidate alla loro custodia? Non accade solo nelle carceri, ma anche negli asili, negli ospedali, nelle case di cura, nelle caserme, nei commissariati, nelle stazioni dei Carabinieri, nelle Rsa… La cronaca è munifica di raccapriccianti resoconti di aguzzini in divisa.

Le condizioni di tetra separatezza di questi luoghi ne agevolano indubbiamente la consumazione, ma le torture avvengono sovente anche sotto la luce del sole. Zelanti tutori dell’ordine, protetti dall’anonimato, diventano esaltati squadristi nei confronti di inermi studenti e stremati operai, per poi indossare i panni dei premurosi cani pastore a tutela del gregge di teppisti, vandali e violenti facinorosi. Siamo tra i pochi Stati a non aver ancora dotato le uniformi delle FF.OO. di un codice identificativo.

Oggi ci indigniamo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere perché inavvertitamente sono state lasciate accese le telecamere del circuito interno di sorveglianza. Diversamente, le parole e le ecchimosi dei detenuti sarebbero state intrinsecamente inattendibili, perché riguardanti soggetti gravati dal discredito e dall’infamia. Lo testimonia il fatto che dalla politica nessuno ha chiesto pene più severe (è la banale panacea che i politici offrono ai beoti elettori) per i torturatori. Anzi è arrivata loro, persino, la solidarietà del proteiforme felpista.

Anch’io ritengo che, sul piano repressivo, inasprire l’art. 613 bis c.p., sebbene sia una norma con persistenti zone d’ombra, non sia prioritario. Le norme penali sono, infatti, come i semi della parabola evangelica del seminatore. Ognuna va piantata su un terreno fertile, con un humus fecondo. Il precetto penale non deve, cioè, cadere sul terreno roccioso dell’omertà o sul terreno sabbioso d’indagini oziose e tardive, altrimenti le indagini che ne germineranno, non avendo radici, saranno rinsecchite da brucianti archiviazioni. E qualora dalle indagini germogli un timido fiore di verità, questo non deve soffocare tra i rovi dei depistaggi, tra le sterpaglie delle falsificazioni, tra la gramigna delle complicità. Occorre, invece, arare il terreno buono, tracciare il solco, che ospiterà la norma fruttifera, e dotarlo di una rete di sostegno e di rinforzo, dove la pianta dell’accertamento penale potrà aggrapparsi.

Dovrebbero far parte della suddetta rete:

1. Nuove carceri (servirebbero 20 mila posti in più). Più il carcere è inumano, per il suo endemico e degradante affollamento, per le sue sacche di opprimente segregazione, più è facile che trattamenti deliberatamente vessatori possano proliferare, sul tacito presupposto di un contesto legittimante. Serve, pertanto, migliorare gli spazi e puntare sulla funzione rieducativa della pena, la cui normalizzazione e appressamento agli stili di vita esterni è in grado di produrre benefici effetti preventivi;

2. Responsabilizzazione del personale medico. I medici che refertano e gli infermieri che distribuiscono i farmaci nelle sezioni sono il convitato di pietra in questa vicenda. La presenza del personale medico nei luoghi di reclusione dovrebbe incarnare il più efficace presidio per l’incolumità delle persone detenute e l’alleato principe del pubblico ministero;

3. Speditezza delle indagini. La rapidità delle indagini è fondamentale. Si assiste, invece, ad una resistenza passiva degli inquirenti (che di rado usano gli accertamenti tecnici irripetibili) ed una pigra iniziativa della polizia giudiziaria (spesso del medesimo corpo) che effettua le indagini. Si potrebbe, allora, allontanare il procedimento dal luogo di consumazione dei fatti, con il ricorso a nuclei centrali e specializzati o con lo sradicamento dell’inchiesta dal locus delicti.

“Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Ricordiamolo.

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