Più ricorsi in appello, soprattutto da parte degli imputati che sono in grado di pagarsi gli avvocati difensori più abili. E, chiaramente, un rischio più alto di non garantire che sia fatta giustizia: equivale ad alimentare l’impunità. Sono gli effetti principali della nuova prescrizione disegnata da Marta Cartabia. Che riforma ha un altro risultato: è completamente l’opposto di quello che chiedeva la commissione Ue negli anni scorsi. Ma forse sarebbe meglio parlare di presunta riforma. Da via Arenula, infatti, al momento circolano solo bozze che lasciano ancora aperti alcuni interrogativi. Questo perché gli emendamenti che la ministra avrebbe dovuto presentare in commissione Giustizia alla Camera non sono mai arrivati, nonostante la discussione del ddl sia prevista in aula per il 23 luglio. Per accelerare, quindi, Cartabia ha scelto un’altra strada, insieme al premier Mario Draghi: discutere la riforma direttamente al Consiglio dei ministri di giovedì alle 17.
Così la riforma aumenta processi e impuniti – Un modo per mettere gli esponenti del governo con le spalle al muro: devono dare il via libera al ddl, blindandolo con la condivisione politica in Cdm. Ma le norme che vorrebbe introdurre la guardasigilli continuano ad avere più di un problema. A cominciare proprio dalla prescrizione, che fa a pezzi la riforma Bonafede. Dall’1 gennaio 2020, infatti, è in vigore la legge voluta dall’ex guardasigilli che blocca la prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio: produrrà i suoi effetti a partire dal 2025 ed è dunque presto per tracciarne un bilancio. Di sicuro chi si è visto applicare una norma che congela la prescrizione dopo la prima sentenza, non ha molto interesse a fare ricorso in appello. Soprattutto quando è stato magari condannato a pene molto lievi. Il meccanismo studiato da Cartabia, invece, mantiene la prescrizione esistente solo fino al primo grado. Nel secondo subentra un altro concetto, quello dell’improcedibilità. Se l’Appello non si conclude entro due anni, il processo non può più andare avanti, cioè muore in via definitiva. Lo stesso vale per quello in Cassazione, dove la tagliola scatta entro un anno.
Quanto dura un processo d’appello – Con una legge del genere è evidente che aumenteranno gli imputati desiderosi di tentare la fortuna di un lungo processo d’Appello. Senza considerare che un abile difensore sa bene come spostare in avanti la durata di un procedimento. In questo modo vuol dire non solo che aumenteranno i processi di secondo grado, ma che inevitabilmente sarà molto più difficile assicurare che siano garantite le ragioni di giustizia. Un esempio? Secondo i dati di via Arenula, ralativi al 2019, un processo di Appello dura in media in Italia 759 giorni, 29 in più del limite dei due anni entro il quale Cartabia vorrebbe far morire il procedimento. I processi di secondo grado si salverebbero a Palermo (347 giorni di media), Milano (315), Brescia (522) e Torino (665), mentre andrebbero in fumo a Napoli (1.495), Roma (1.128), Reggio Calabria (1.013), Firenze (878).
I nodi da sciogliere – Ovviamente visto che la riforma è ancora presunta e – pare – oggetto di una mediazione tra Cartabia e Anna Macina, sottosegretaria dei 5 stelle alla giustizia, rimangono ancora molti gli interrogativi da sciogliere. Per esempio: è evidedente che i processi non siano tutti uguali e dunque non possono morire tutti entro lo stesso tempo. Una cosa è un processo per un furto, un’altra uno omicidio: dovranno tutti concludersi entro due anni in Appello? E il limite varrà anche per i reati imprescrittibili come appunto l’omicido e la strage? Pare che su questo punto la guardasigilli intenda mettere dei paletti: inessun limite per i reati imprescrittibili, limite più alto per i reati gravi come la mafia e il terrorismo. E la corruzione? In quel caso niente strappo alla regola: entro 3 anni dal primo grado bisogna andare a sentenza definitiva.
La sfida in Cdm – È evidente come una riforma del genere possa avere dei problemi a trovare l’appoggio del Movimento 5 stelle. Divisi dalla lunga mediazione tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, ma anche nelle due sottocorrenti di governisti – molto meno barricaderi – e oppositori del governo Draghi, i 5 stelle dovranno scegliere nelle prossime ore cosa fare: fare muro sulla prescrizione facendo saltare il Cdm, oppure accettare la riforma Cartabia che fa a pezzi la Bonafede. E smentisce quanto dichiarato dal ministro capodelegazione Stefano Patuanelli al Corriere della Sera pochi giorni fa: sulla prescrizione “l’intesa raggiunta nel precedente governo è l’unico punto di caduta possibile” . Il riferimento è per il lodo Conte, che bloccava la prescrizione dopo il primo grado a seconda che l’imputato fosse stato condannato o assolto. Un meccanismo che con quello della Cartabia ha poco a che vedere.
Quando l’Ue chiedeva una riforma come la Bonafede – Senza considerare che la riforma studiata dall’ex presidente della Consulta va completamente in senso contrario a quanto chiesto per anni dall’Europa al nostro Paese. L’ultima volta risale al febbraio del 2017, quando la Commissione Ue aveva messo nero su bianco un severissimo giudizio sugli “squilibri” italiani. “Il termine della prescrizione ostacola la lotta contro la corruzione“, era l’incipit del lungo paragrafo dedicato al sistema giudiziario italiano, che la commissione aveva passato in rassegna. “Le sfide dell’Italia legate alla corruzione ad alto livello, ai conflitti di interesse, ai collegamenti con la criminalità organizzata e la corruzione nel settore privato sono ancora confermate da diversi indicatori”, spiegava il rapporto Ue. Che sulla prescrizione metteva nero su bianco un giudizio tranciante: “Il sistema attuale ostacola considerevolmente la repressione della corruzione, non da ultimo perché incentiva tattiche dilatorie da parte degli avvocati”, scriveva la commissione che analizzando i dati del ministero della Giustizia era arrivata alla conclusione che “nel complesso, un’alta percentuale di cause cade in prescrizione dopo la condanna di primo grado”. Anche per questo motivo era arrivata la riforma Bonafede, che bloccava la prescrizione dopo il primo grado. E infatti tre anni dopo la commissione Ue ha definito quella legge come “una riforma benvenuta, che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, cosa che è in linea con una raccomandazione specifica per il Paese formulata da tempo“. Ora il governo più europeista della storia d’Italia intende smantellare quella riforma che proprio l’Ue aveva elogiato.