di Andrea Maglia

Nel nostro Paese, ormai da molto tempo, si parla di una degenerazione del processo penale; la più grande colpa attribuitagli è la abnorme quantità di tempo necessario per arrivare ad una sentenza definitiva. Il compito della politica, a questo punto, dovrebbe essere quello di comprendere le radici del problema e di legiferare di conseguenza. Io, dal canto mio, provo a farlo: la causa che sta alla base di tempi così lunghi è senza dubbio il numero di processi; il processo accusatorio italiano, copiato da quello americano, richiede che un altissimo numero di indagati patteggi e solo una minoranza di loro vada effettivamente a giudizio; negli Stati Uniti, difatti, succede esattamente questo: il 95% delle controversie penali non raggiunge mai il dibattimento, ma si conclude con un patteggiamento (plea bargaining) tra accusa e difesa. In Italia, invece, le percentuali sono addirittura invertite.

Un ulteriore problema è il numero di gradi di giudizio; intendiamoci, tutti i Paesi civili hanno tre gradi di giudizio, ma solo da noi e in Grecia (che, di questi tempi, non è esattamente un esempio positivo) tutti gli imputati li percorrono effettivamente tutti e tre: in Italia, per intenderci, tutti gli imputati appellano la sentenza di primo grado (quelle di condanna, è chiaro) e tutti gli imputati fanno ricorso per Cassazione. Per darvi qualche numero, ogni anno la Suprema Corte di Cassazione emette 50mila e più sentenze penali; l’omologa francese ne emette al massimo 9mila, comprendendo anche le sentenze civili, e l’omologa statunitense ne emette 900, comprendendo anche quelle civili e di costituzionalità. E qui si capiscono anche le ragioni di un così abnorme numero di avvocati nel nostro Paese (nella sola città di Milano ci sono metà degli avvocati di tutta la Francia).

Dopo questa lunga indagine, augurandomi di non avervi eccessivamente tediato, giungo alle conclusioni della mia riflessione: cosa è necessario che la politica faccia, affinché i tempi della giustizia si riducano drasticamente? La risposta è molto semplice: l’Italia deve copiare dagli altri Paesi, come la Francia oppure gli Stati Uniti; in primo luogo, è necessario che la prescrizione smetta di decorrere con l’inizio dell’azione penale, e cioè con l’inizio del processo di primo grado; in secundis, è necessario abolire il divieto di reformatio in peius: così che quando è il solo imputato ad appellare, i giudici di appello possano comunque aumentargli la pena; solo così gli appelli dilatori diventeranno rischiosi per l’imputato, che potrebbe vedersi la pena lievitare ulteriormente. Mentre oggi, appellando, malissimo che vada, gli imputati si vedono confermata la pena di primo grado; conseguenza: tutti appellano e i tempi della giustizia si allungano.

Potremmo, inoltre, copiare al diritto anglosassone il reato di “oltraggio alla corte”: per appellare devi chiedere al giudice di primo grado; se questi ti dice che l’appello è una “loss of time”, una perdita di tempo, e tu appelli comunque e ti vedi dare torto, vai direttamente in prigione per aver fatto perdere tempo alla giustizia del tuo Paese. Questi sono indicatori di serietà!

In conclusione, come avrete capito da soli, la direzione che l’attuale Governo e in particolare la ministra della Giustizia ha deciso di prendere è antitetica a quella dettata dal buonsenso e, con il tempo, produrrà effetti opposti a quelli desiderati: visto che appellare, in vista della prescrizione del reato, converrà, tutti lo faranno e i tempi si allungheranno ancora di più.

La cosa che mi stupisce di più, però, è che “il sedicente governo più europeista della storia cancelli la riforma giudiziaria più europeista della storia” (Marco Travaglio).

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