Papa Francesco mediò direttamente con Gianluigi Torzi. Ma nemmeno davanti all’intervento di Bergoglio il broker molisano restituì alla Segreteria di Stato la titolarità del palazzo di Londra. I magistrati vaticani hanno ricostruito in modo approfondito l’incontro avvenuto, il 26 dicembre 2018, nella residenza del Papa, Casa Santa Marta. Vicenda che emerge dai dieci rinvii a giudizio nel maxiprocesso della Santa Sede. Torzi davanti al Pontefice sembrava disponibile a chiudere la faccenda recuperando soltanto le spese, ma poi, quando si è trattato di concretizzare la sua uscita, secondo i pm avrebbe messo in atto un’estorsione da 15 milioni di euro. Soldi pagati, sempre secondo gli inquirenti, con causali irregolari.
Il broker era stato incaricato dal sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, di aiutare il Vaticano a uscire dal fondo del finanziere Raffaele Mincione. “Effettuata la scelta [n.d.r.: quella di trattare con Gianluigi Torzi] – scrive il presule in una nota consegnata ai pm – e nella situazione di pericolo che il Torzi, forte di quello che aveva in mano, avrebbe potuto in effetti anche disfarsi del palazzo e/o porre in essere ulteriori atti fraudolenti ai danni della Segreteria di Stato, i primi giorni del mese di gennaio 2019 [n.d.r.: la data è quella del 26-12-2018], il Santo Padre ha ricevuto in udienza il Torzi, insieme all’Intendente, al professor Renato Giovannini e al Milanese e il sottoscritto. Durante un breve incontro, Papa Francesco ha voluto ribadire al Torzi che apprezzava quanto egli aveva fatto per la Segreteria di Stato e che aveva dato al sostituto il mandato di riorganizzare per esteso la gestione patrimoniale e finanziaria della Segreteria di Stato e che la ‘sua volontà era voltare pagina e ricominciare da capo’”.
I magistrati sottolineano che in quell’incontro, secondo quanto dichiarato da Milanese, Torzi “non si fece scrupoli di avanzare anche davanti al Santo Padre le sue inaccettabili richieste”. Successivamente, “Torzi, Giovannini e Intendente quantificarono i costi dell’operazione in 3 milioni” di euro. Sempre Milanese ha spiegato che “la trattativa con Torzi era nel senso che lui avrebbe ceduto le quote al solo costo delle spese che avrebbero quantificato e documentato con un piccolo guadagno, così come convenuto davanti al Santo Padre”.
Da qui i pm scrivono che “nonostante la solennità dell’incontro, la disponibilità manifestata dalla Segreteria di Stato a riconoscere la somma di 3 milioni di euro, e l’ottimismo che serpeggiava all’interno della Segreteria di Stato convinta di essere riuscita nell’intento perseguito, e di poter concludere l’operazione entro la fine dell’anno, tuttavia Gianluigi Torzi non restituì le azioni della Gutt Sa. Probabilmente la verificata malleabilità del Vaticano deve essere subito apparsa una occasione irripetibile per Gianluigi Torzi per accontentarsi della promessa di vedersi corrisposta, per l’attività prestata, la somma di 3 milioni di euro che, come visto, non gli era assolutamente dovuta, ma che la Segreteria di Stato, per quieto vivere, aveva deciso di riconoscergli”.
Sulla decisione alquanto irrituale per il Vaticano di esporre direttamente il Papa nella mediazione, Milanese ha spiegato ai pm: “Il 24 dicembre 2018 mi recavo dal Sostituto alle ore 12 dopo essere andato dal Santo Padre e convenimmo d’intesa con il Santo Padre di portare Torzi, Intendente e Giovannini dalla Sovrana Autorità. Oggi con il senno di poi, mi rammarico di non aver evitato questo incontro”. E ha aggiunto: “Alla fine dell’incontro del 26 dicembre 2018 dopo che il Santo Padre uscì, rimanemmo nel salone della Domus di Santa Marta, io, il sostituto, Giovannini, Torzi ed Intendente. Ricordo che il sostituto provò a far sottoscrivere a Torzi una dichiarazione di impegno che non so chi e quando la predispose, che tuttavia Torzi, dopo averla esaminata, non sottoscrisse, dichiarando che occorreva quantificare gli importi che gli dovevano essere consegnati”.
Secondo quanto hanno appurato i pm vaticani, al termine delle indagini durate due anni, nell’affare che ha incluso il palazzo di Londra “emerge un intreccio, quasi inestricabile, tra persone fisiche e giuridiche; fondi di investimento; titoli finanziari, quotati e non, banche ed istituti di credito di varia tipologia, ampiezza e trasparenza d’agire. Vicende ordinate appositamente e variamente interessate ad attingere alle risorse economiche della Santa Sede, spesso senza alcuna considerazione delle finalità e dell’indole della realtà ecclesiale”.
Per i magistrati “si è altresì potuto rilevare, grazie ad uno sforzo di approfondimento e di cooperazione tra forze di polizia, il ruolo avuto nel tempo ed in diversi contesti operativi da vari soggetti estranei alla struttura ecclesiale, spesso improbabili se non improponibili, attori di un marcio sistema predatorio e lucrativo, talora reso possibile grazie a limitate, ma assai incisive, complicità e connivenze interne”. Ora toccherà al Tribunale Vaticano, presieduto da Giuseppe Pignatone, accertare le responsabilità e stabilire le eventuali condanne.