Benedetta è l’atteso film scandalo del concorso al 74° Festival di Cannes, che Paul Verhoeven può finalmente mostrare alle platee dopo tre anni di giacenza. Liberamente ispirato al libro-saggio Immodest Acts: The Life of a Lesbian Nun in Renaissance Italy (Studies in the History of Sexuality) di Judith C. Brown del 1986, è il racconto (francofono) di Benedetta (Virginie Efira), una monaca schizoide e ambiziosa. Oggi anche due notevoli esordi: Re Granchio della coppia di registi italo-americani Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis e Piccolo corpo di Laura Samani
Proviamo a immaginare un dildo ricavato da una piccola scultura lignea della Vergine Maria. Ma anche una grande statua della Madonna che cade sopra una bimba adagiando la mammella scoperta nella bocca dell’innocente sottostante. E ancora una giovane madre superiora mitomane che si dice incaricata da Cristo in persona di salvare il mondo. Fino, ça va sans dire, a una passione lesbica sado-masochista che si consuma in un convento toscano di monache che lo abitano perché costrette, nell’ambito di un contesto ecclesiastico tardo 17° secolo in cui tutto regna tranne la fede cristiana. Il tutto raccontato in chiave di magniloquenza trash, fra orrori e risate, il sacro e il blasfemo in un circo epico e trucido insieme. Ecco il cuore folle e roboante di Benedetta, l’atteso film scandalo del concorso al 74° Festival di Cannes, che Paul Verhoeven può finalmente mostrare alle platee dopo tre anni di giacenza. Liberamente ispirato al libro-saggio Immodest Acts: The Life of a Lesbian Nun in Renaissance Italy (Studies in the History of Sexuality) di Judith C. Brown del 1986, è il racconto (francofono) di Benedetta (Virginie Efira), una monaca schizoide e ambiziosa, sufficientemente furba da erigersi a santa visionaria, di certo manipolatrice bugiarda e naturalmente lesbica. Tal Benedetta Carlini – che realmente esistette – è la pietra dello scandalo e il cuore di quest’opera più tronfia che sostanziale, che il regista olandese ha realizzato – a sua detta – con l’intento di mostrare “l’atmosfera religiosa del tempo, in cui una relazione amorosa fra donne non solo era vietata ma era inconcepibile fisiologicamente, il lesbismo non poteva semplicemente accadere. Ho pensato a questa storia e a dove siamo ora: credo il film possa essere interessante per mostrare come fosse la concezione della vita sessuale a quel tempo. Il libro è un saggio, l’abbiamo trasformato in narrativa, molte delle descrizioni del libro sono tuttavia riportate fedelmente nel film”.
Al di là delle intenzioni “accademico-divulgative”, si ha l’impressione che l’82enne regista di Basic Instinct e Robocop – da sempre ossessionato con la religione, si veda il suo corposo libro dedicato al Cristo – abbia voluto (mal) omaggiare il genere gothic-horror-sexy-conventuale di derivazione letteraria e successivamente parecchio in voga negli anni ’70; il problema è che il suo approccio ai sapori “visionari” di quel filone appare vecchio, disordinato, ormai sterile, e ben poco ambiguo come invece sappiamo Verhoeven poter diventare, basti ricordare il suo Elle (2016). In altre parole, Ken Russell sconvolse il mondo esattamente 50 anni fa con i suoi blasfemissimi diavoli (The Devils), ma quello era un capolavoro.
Ma la giornata odierna di Cannes non manca di riservare ancora attenzione al cinema italiano con ben due titoli in prémière mondiale sulla Croisette. Si tratta di due notevoli esordi, espressione della buona salute di certa “nuova generazione” nell’ambito del nostro universo produttivo. Re Granchio della coppia di registi italo-americani Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis nel programma della Quinzaine des Realizateurs e Piccolo corpo di Laura Samani alla Semaine de la Critique rivelano due mondi immaginifici raccontati e osservati con approcci narrativo-visivi del tutto interessanti. Da una parte la fiaba di un personaggio bizzarro dedito all’alcol che tormentato da un amore proibito commette un crimine imperdonabile che lo costringe a un esilio nella remota Terra del Fuoco, dall’altra, il viaggio di una giovane madre determinata a dare un nome alla figlia nata morta. Entrambi i lavori sondano territori poco esplorati e – coraggiosi nell’utilizzo di lingue e dialetti che profumano di arcaico come i loro racconti – compiono il tentativo di non adagiarsi sulle convenzioni del linguaggio audiovisivo, cercando quindi con personalità di calcare luoghi originali dello sguardo.