I tifosi veri vogliono stare in piedi. Ovunque, in qualsiasi stadio. "Ero orgoglioso dell'Inghilterra, felicissimo che mio padre mi stesse portando a vederla giocare sotto i riflettori di Wembley..."
“Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia“. Non è uno che le manda a dire l’amico Sun Tzu, nel suo L’arte della guerra. Parrebbero osservazioni giuste e, non si offenda il generale cinese, abbastanza scontate. Ora, mentre il ct Mancini sta preparando la nostra Nazionale alla sfida di domani 11 luglio contro l’Inghilterra per la finale degli Europei 2020, anche noi potremmo dedicare qualche minuto a cercare di conoscere il nostro “nemico”. Il tifoso inglese. Si fa per dire, va da sé. Poi ci vogliamo tutti bene: via di Guiness, Clash e statuine della Regina che saluta con la mano. Se c’è uno che conosce la fenomenologia del tifoso inglese, quello è Nick Hornby. Romanziere appassionato di calcio e musica, i suoi romanzi generazionali sono una stella luminosa nella letteratura moderna e una fonte di ispirazione inesauribile per altri scrittori che lo copiano (pensando che non ce ne accorgiamo: ehi, non siamo scemi) di continuo. C’è questo libro, Febbre a 90°, pubblicato nel 1992. Il suo primo scritto, a dirla tutta, che pure non è affatto invecchiato. È la storia di un amore inossidabile pur se burrascoso: quella tra Hornby e l’Arsenal, la “sua” squadra. Non è un libro che parla di calcio. O meglio, è un libro che parla di calcio, va detto, ma quello che fa meglio è spiegare la ragione di questo sport, la sua magnifica essenza, sdoganandone l’importanza sociale. “Ma si tratta di semplice sport e ci girano attorno troppi milioni“, dirà qualcuno (c’è sempre qualcuno che lo dice). Sì, però vediamola un attimo dal punto di vista del tifoso. Facciamo questo gioco. Tra l’altro, essendo Hornby inglese di Redhill, già che ci siamo seguiamo i consigli di Sun Tzu e il nostro l’abbiamo fatto. Febbre a 90°, che mezzo mondo conosce e ha letto, è per “quanti si sono scoperti andare alla deriva, nel bel mezzo di una giornata di lavoro o di un film o di una conversazione, verso un sinistro al volo nel sette di destra, sferrato dieci o quindici o venticinque anni fa“. Tra le pagine di Horby si legge il passaggio dalla “maschiezza” (così la chiama) dei tempi passati alla lenta evoluzione verso l’apertura al calcio femminile, oggi per fortuna ancora più evidente nonostante ci sia strada da fare. Si legge la differenza tra l’andare a vedere le partite come tifoso di club e come tifoso della Nazionale. Attraverso le partite dell’Arsenal, Hornby cresce, l’Inghilterra cambia insieme al resto del mondo (quasi tutto) e cambia il calcio, si smorza la deprecabile aggressività degli hooligan (“penso che si debba distinguere tra il fenomeno degli hooligan in questo Paese e il fenomeno che coinvolge i tifosi inglesi all’estero”, scrive Horby ribandendo “il sospetto che molti disordini che videro coinvolti gli inglesi a Berna, in Lussemburgo o in Italia fossero alimentati dall’alcol”) cambiano le tecniche di gioco, il calcio diventa uno sport più accogliente. I pensieri del tifoso, sono quelli a cambiare poco: “Abbiamo la speranza ingenua di andarcene senza niente di incompiuto: avremo fatto pace con i nostri figli, li lasceremo felici e sistemati e avremo realizzato più o meno tutto quello che volevamo dalla vita. Chiaramente sono tutte sciocchezze, e i tifosi di calcio che meditano sulla loro mortalità sanno che sono tutte sciocchezze. Ci saranno mille cose inconcluse. Magari moriremo la notte prima che la nostra squadra scenda in campo a Wembley, o il giorno dopo una partita di andata in Coppa dei Campioni… La questione fondamentale sulla morte, metaforicamente parlando, è che è destinata ad arrivare prima che siano stati assegnati i trofei più importanti“. Fa un po’ ridere, diciamo british humor, eppure non è una visione così strampalata del tifoso, affatto. È tutto molto serio perché per il “tifoso vero, il calcio come intrattenimento esiste nella stessa maniera in cui in mezzo alla giungla esistono gli alberi che cadono: presumiamo che succeda ma non siamo in grado di poterlo dire“. Il tifoso avverte un leggero dolore persino quando riguarda partite ‘vecchie’, anche se conosce perfettamente come si svolgerà l’azione quale sarà l’esito. Ai tifosi che vanno allo stadio capita che tra il primo e il secondo tempo l’intrattenimento musicale sia offerto dalla banda della Polizia Municipale. I tifosi che perdono (perdono loro, non solo il club o la Nazionale) sono spesso cupi, sulla difensiva, polemici, repressi. I tifosi più anziani insegnano ai nipoti che “c’è sempre una prossima volta“. I tifosi veri vogliono stare in piedi. Ovunque, in qualsiasi stadio. “Ero orgoglioso dell’Inghilterra, felicissimo che mio padre mi stesse portando a vederla giocare sotto i riflettori di Wembley“, scrive Hornby. A ben leggere, pare che i tifosi si somiglino tutti, quelli felici e quelli infelici. Loro, anzi noi, non guardiamo la partita, siamo la partita.