Noi italiani non siamo mai stati un popolo avvezzo all’unanimità o anche solo a una schiacciante maggioranza. Ci siamo sempre divisi su tutto, peraltro quasi equamente, giusto a incasinare ancor di più le cose. Ottaviano e Marco Antonio, Guelfi e Ghibellini, Coppi e Bartali, Dc o Pci, Pippo o Mike, persino Romina Power e Loredana Lecciso, a voler essere assai prosaici. E se un Paese di attaccabrighe arroganti come il nostro si è fermato tutto, senza eccezione alcuna, senza le usuali voci fuori dal coro (anche solo per spirito di contraddizione) a rendere omaggio a Raffaella Carrà qualcosa vorrà pur dire. Vuol dire tantissimo, in effetti, perché la Carrà ha davvero messo d’accordo tutti. Lo si è sentito dire spesso, al momento del commiato di personalità importanti, che hanno segnato il loro tempo in un modo o nell’altro. Ma quasi sempre trattavasi di frasi di circostanza, che quasi nessuno pensava sul serio.
Con lei no, non è andata così. Raffaella Carrà ha segnato oltre mezzo secolo di cultura popolare italiana e lo ha fatto davvero. E soprattutto lo ha fatto a modo suo, un modo furbissimo che ne ha fregati tanti, di censori e moralisti, che sono cascati nella sua fittissima rete fatta di ecumenismo a parole e rivoluzione nei fatti. Anzi, nei passi. Nelle movenze. Nei gesti in scena. Nessuno, dal 1945 a oggi, è riuscito a scassinare con la sua stessa destrezza l’arrugginita cassaforte moralista dell’Italia repubblicana. I suoi strappi sono stati decisi e netti ma non hanno mai spaventato nessuno. E non perché Raffaella Carrà non avesse coraggio. Ne avuto tantissimo, in Italia e altrove. Semplicemente aveva capito come fregare i parrucconi. E lo ha fatto.
In Italia tutto è cominciato con il famoso ombelico. Un ombelico che aveva la fortuna di essere attaccato a meno di un metro di distanza da un viso angelico, da un sorriso che quando si apriva riusciva ad accogliere, mai a respingere. Nella Carrà degli esordi c’era una freschezza rara, dalle parti di mamma Rai. Si usciva dagli anni Sessanta del boom ma anche di una tv ancora attenta a non provocare scompensi (soprattutto ormonali) agli spettatori. Quel viso angelico e gioioso ha irretito i capoccioni del settimo piano di viale Mazzini ed è arrivato dritto nelle case degli italiani. Quello che i signori del vapore non avevano calcolato, però, è che la telecamera avrebbe percorso con curiosità quel metro scarso di pelle candida e non si sarebbe più staccata da quell’ombelico, occhio magico e ipnotizzante, centro del mondo sensuale inedito per le decine di milioni di spettatori che guardavano Canzonissima. La scanzonata maniera d’essere di Raffaella Carrà azzerava, almeno apparentemente, la carica virale di quei pochi centimetri quadrati di corpo femminile. L’effetto restava comunque dirompente. E niente sarebbe stato lo stesso, da quel momento in poi.
È la dottrina Carrà che prende forma per poi crescere negli anni a venire fino a diventare uno tsunami internazionale: ecumenica a parole, sfacciatamente rivoluzionaria nei gesti. Le sue canzoni usavano la stessa strategia: versi giocosi, calembour sapidi (merito di quel diavolaccio di Boncompagni), sottotesti dirompenti. Quel corpo, poi, è sempre stato uno strumento di evangelizzazione delle masse, di educazione sessuale nascosta da movimenti divertiti e divertenti. La testa scattosa, la schiena inarcata, le braccia mulinanti, la vita ondeggiante, andrebbero rianalizzate al rallenti e senza musica, per coglierne ancora di più la portata erotica.
Il vero capolavoro rivoluzionario, però, è arrivato dalla metà degli anni Settanta in poi, quando Raffaella Carrà è andata a conquistare prima la Spagna. Riuscendoci, ovviamente. Era un Paese letteralmente appena uscito da una dittatura. Una democrazia fragilissima, appesa a un filo, anche all’inizio di un lungo percorso di transizione che si sarebbe concluso solo all’esordio degli anni Ottanta, prima con il grottesco tentativo di golpe di Tejero e poi con la vittoria elettorale socialista del 1982. Quando la Carrà è sbarcata per la prima volta sulla tv spagnola come ospite, Francisco Franco era ancora vivo e il franchismo boccheggiava ma resisteva. Ospite di Señoras y Señores!, Raffaella era piaciuta così tanto a pubblico e dirigenti che solo l’anno dopo, con il cadavere del Caudillo ancora caldo, le erano state dedicate due puntate del programma “La hora de…”, che ogni settimana era incentrato su un grande protagonista dello spettacolo spagnolo e internazionale. Da allora non si è più fermata e ha trovato in Spagna qualcosa di più di una seconda casa. Ma l’incontro tra la Carrà e gli spagnoli non poteva che essere rivoluzionario. Per un popolo sepolto sotto quasi 40 anni di asfittica polvere franchista, affamato di libertà, di trasgressione, di pelle scoperta e musica a tutto volume, le movenze di Raffaella erano passi codificati di un rituale magico, di un sabba innocuo ma liberatorio che in un colpo solo ha mandato in soffitta timori televisive e mostrine militari, gonne misurate al centimetro e chilometri di pellicola tagliati dai censori nelle stanze della tv spagnola.
Raffaella Carrà aveva sangue romagnolo, con tutto il suo portato di anarcoide tendenza alla libertà. Una libertà furba, dicevamo, meno sbandierata, ma non per questo meno efficace e apprezzabile. Anzi, alla fine la dottrina Carrà ha dimostrato tutto il suo valore. Tutti i più grandi geni della cultura popolare post-franchista citano Raffaella Carrà tra i loro riferimenti. Tutti, nessuno escluso. Da Almodovar in giù. E non si deve pensare, con approccio sin troppo naïf, che Raffaella fosse inconsapevole, che succedesse tutto a prescindere da lei e dai suoi comportamenti. Nossignore. Raffaella Carrà è stata una delle personalità del mondo dello spettacolo più consapevoli e coscienti del proprio ruolo e del proprio impatto sugli spettatori. Semplicemente, a differenza di tante altre prima e dopo di lei, in più aveva il senso della misura, lo stile, l’intelligenza di capire che se sei la Carrà non hai bisogno di urlarlo ai quattro venti o di tirartela più del dovuto. Sei la Carrà e lo sanno tutti. In Italia, in Spagna, in Sud America e in tantissime altre parti del mondo.
L’unico aspetto dell’impatto culturale della Carrà in cui è riscontrabile una certa inconsapevolezza è il rapporto fittissimo, viscerale e mai neppure messo in discussione con la comunità LGBT. Raffaella ha sempre detto di non aver fatto nulla per diventare icona di una comunità che a ogni latitudine l’ha eletta a propria incontrastabile regina. È vero e la cosa non sminuisce il rapporto ma, al contrario, lo esalta ancora di più. Perché la comunità LGBT ha riconosciuto nella vita e nel lavoro di Raffaella Carrà una parte della propria battaglia quotidiana. Nelle sue esibizioni c’era tutto quello per cui molte persone continuano a lottare ancora oggi. Raffaella ha cantato e ballato la liberazione dei corpi e dei generi prima che diventasse mainstream. Molto prima. Decenni prima. È diventata icona queer per questo, non perché colorata e “gaia”. Quella è la spiegazione pigra che si danno i superficiali. È proprio per questo che altri tipi di feeling tra la comunità e questo o quel personaggio non hanno resistito all’usura del tempo o alle cadute delle maschere mentre con Raffaella è stato amore dal primo all’ultimo secondo e oltre.
La dottrina Carrà ha funzionato anche e soprattutto sul fronte televisivo, dove per tantissimi anni il dominio è stato totale, persino umiliante per le concorrenti. E anche in quel caso, non c’era bisogno di ostentare. Non lo faceva perché non lo voleva fare. Non lo faceva perché non ce n’era bisogno. Sul finire degli anni Settanta, quando aveva già inanellato un decennio di trionfi, in tv era arrivata Heather Parisi, altro pezzo importante di storia televisiva. La Parisi ballava meglio di Raffaella? Tecnicamente sì, di gran lunga. La più giovane Heather ha oscurato la stella della Carrà? No. E quando gli anni di trionfi erano quasi venti, sulla scena spunta un’altra stella: Lorella Cuccarini. La Cuccarini cantava meglio della Carrà? Sì. Ha oscurato la stella della Carrà? No. Era il pacchetto Carrà che funzionava, era la verità del messaggio che arrivava a casa, era la consapevolezza del pubblico (che, ricordiamolo, non era scemo allora e non è scemo adesso) di avere a che fare con una persona superiore alla media, di un fenomeno che sarebbe rimasto per sempre, senza segni di cedimento. Intendiamoci: televisivamente, la Carrà non le ha mica indovinate tutte. Forte Forte Forte, per esempio, era oggettivamente un brutto programma. Ma neppure i (pochi) mezzi passi falsi professionali hanno minimamente scalfito il monumento che era e che è rimasta per gli italiani.
Ha inventato generi, sdoganato stili e tendenze catodiche. Ha aperto la strada alle showgirl totali, complete, conduttrici, ballerine e cantanti insieme. Ha spazzato via le barre del monoscopio dal mezzogiorno televisivo. È entrata per prima nel delicatissimo mondo del “people show” con Carramba e poi altre hanno seguito il suo esempio. Alcune riuscendoci e persino arricchendo il genere, altre fallendo miseramente. Ma nessuno, prima o dopo di lei, è mai riuscito a ottenere quello che ha ottenuto lei. Nessuno, nel mondo dello spettacolo italiano, ha avuto un impatto culturale globale come quello di Raffaella Carrà. Nessuno ha attraversato indenne oltre cinque decadi, con una fama crescente e ormai vicina all’idolatria. Il motivo è quello che abbiamo provato a spiegare fino a questo momento: la dottrina Carrà è stata una perfetta miscela di talento, impegno, furbizia, verità. Lei rideva rumorosamente mentre cambiava il mondo. E gli stolti, i parrucconi, i moralisti, le mezze calzette, i pavidi, badavano alla risata mentre lei cambiava un mondo che loro avevano costruito e che volevano conservare. Raffaella Carrà è stata considerata per decenni sin troppo “leggera” nei messaggi veicolati. Anche qui, ahinoi, non avevano capito un cazzo. Era leggero il modo, non il messaggio. Il messaggio è sempre stato così pesante, così ingombrante, così rivoluzionario, che è passato e ha travolto tutti.