La mediazione che ha portato all’ultima versione della riforma della Giustizia firmata dalla ministra Marta Cartabia non convince nemmeno Franco Coppi, il più noto dei penalisti italiani nonché difensore, tra gli altri, di Silvio Berlusconi, Giulio Andreotti e Vittorio Emanuele di Savoia nonché, in tempi recenti, Luca Lotti. E a suscitare più di un dubbio, che l’avvocato ha espresso in un’intervista a Il Giornale, è anche e soprattutto il nodo sulla prescrizione. Tanto da arrivare a dire che “a questo punto era meglio tenersi la riforma Bonafede”.

Coppi vuol mettere l’accento su un aspetto a suo avviso poco analizzato nelle ultime settimane ma che rischia di creare un pericoloso cortocircuito in fase di appello, come sottolineato ieri anche da Ilfattoquotidiano.it: “Nell’ipotesi che i due anni concessi per fare il processo d’appello trascorrano senza che si arrivi a una sentenza, che fine fa la sentenza pronunciata in primo grado? – si chiede l’avvocato – Il reato non si può prescrivere perché la prescrizione è interrotta, ma non si può più procedere. Ovviamente la pena inflitta in primo grado non potrebbe essere eseguita, una norma che lo consentisse verrebbe senza dubbio dichiarata incostituzionale. Ma mi metto nei panni di una parte civile, che nel processo di primo grado ha visto riconosciuto il diritto a un risarcimento. Se l’appello non si celebra in tempo, che se ne fa di questo riconoscimento? Dall’altra parte, l’imputato può ben dire che se si fosse celebrato l’appello lui sarebbe stato assolto. Insomma, un groviglio. A questo punto sarebbe stato meglio tenersi la riforma Bonafede e buonanotte. Se non altro aveva il pregio della chiarezza“.

I tempi stabiliti per i processi di secondo e terzo grado, infatti, non convincono Coppi che li ritiene troppo ottimistici, con il rischio che molti procedimenti non arrivino a sentenza: “Mi sembra del tutto illusorio. A Roma per un processo d’appello se si è fortunati servono tre o quattro anni, si tratterebbe di dimezzare i tempi e non so come pensano di farlo. Anche la previsione di un anno come tempo massimo per i processi in Cassazione mi sembra molto stretta, se guardo a quanto accade attualmente. Anche perché spesso gli atti impiegano molto tempo ad arrivare a Roma e anche quel tempo andrà computato. Questo è il vero problema”.

C’è però un aspetto della riforma che Coppi ritiene fondamentale e che ha lo scopo di segnare una più netta separazione tra il potere esecutivo e quello giudiziario: alla richiesta di un parere sull’accantonamento della possibilità per il governo di indicare periodicamente i reati da perseguire con particolare impegno, Coppi risponde così: “Questo invece è un bene – sostiene – L’azione penale resta obbligatoria e che sia il potere politico a indicare le priorità mi sembra pericoloso. Il governo, se ritiene che alcuni reati siano di modesto allarme sociale, ha uno strumento potente a sua disposizione che è la depenalizzazione, una lunga serie di comportamenti possono venire dissuasi con sanzioni amministrative. Ma per una rinuncia di fatto alla obbligatorietà dell’azione penale l’Italia non è matura”. Resta però la non meglio specificata possibilità per il Parlamento di indicare i criteri generali da seguire per l’applicazione dell’azione penale. Che in realtà rimette in dubbio proprio il principio dell’obbligatorietà.

Infine, sulla battaglia del Movimento 5 Stelle per chiedere che per alcuni reati i tempi concessi per l’appello si allunghino a tre anni, risponde: “Questo è sensato. Ci sono reati che generano un particolare allarme sociale e a un processo per concussione non si possono concedere gli stessi tempi necessari a un furto in appartamento”.

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