È andata come ci si aspettava che andasse. Senza sorprese, senza novità. L’accordo sulla tassazione globale delle multinazionali, chiuso al G20 di Venezia a presidenza italiana, ricalca il documento uscito due settimane fa in sede Ocse e sottoscritto da 132 Paesi su 139. Un primo passo, senza dubbio. Molto timido, altrettanto inequivocabilmente. Ci sarà tempo di capire se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, gli esperti di sistemi fiscali e lotta a elusione ed evasione per ora propendono per la seconda opzione. Poi, naturalmente, ci sono le dichiarazioni di rito. Come quella del commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni che parla di “giornata storica” o del ministro tedesco dell’economia, Olaf Scholz, che afferma: “È un grande progresso aver raggiunto un accordo sulla minimum global taxation dal 15% in su, e sono sicuro che questa sarà la base per le decisioni di tutti gli Stati del mondo, che seguiranno questo accordo”.
La riforma esce da Venezia così come ci era entrata, ma con un “timbro” in più. Non solo nella struttura a “doppio pilastro” ma anche per quanto riguarda numeri e soglie, dove decimali di differenza significano decine di miliardi di gettito in più o in meno. Quello raggiunto “è un accordo storico con cui per la prima volta abbiamo regole che fissano la tassazione per le grandi imprese a livello mondiale e che dovrebbe ridurre i margini della concorrenza fiscale, ponendo fine alla gara fra i paesi verso aliquote più basse, portando a un sistema più equo”, ha detto in conferenza stampa il ministro dell’Economia Daniele Franco, spiegando che il piano è di “implementare a fine ottobre“, al G20 dei capi di governo, i meccanismi concordati. “Spero che i Paesi che finora hanno deciso di non unirsi all’intesa (sette, tra cui i tre europei Ungheria, Estonia e Irlanda, ndr) cambino parere“, aggiunge. “Naturalmente ogni Paese può decidere se essere o meno d’accordo, ma il fatto che i Paesi che rappresentano oltre il 90% del Pil mondiale abbiano trovato un’intesa mette un po’ di pressione su tutti gli altri rispetto alla possibilità di unirsi allo sforzo collettivo”.
Un’unica aliquota globale – L’aspetto più noto della riforma è l’introduzione di un’aliquota minima globale sui profitti delle 100 multinazionali più grandi del mondo. Aliquota che dovrebbe collocarsi al 15%. In sostanza se un Paese decide di tassare i profitti aziendali, ad esempio, al 7%, il Paese di residenza della multinazionale (molto spesso gli Stati Uniti) può riscuotere il rimanente 8%. Un regime che renderebbe inutile il ricorso ai paradisi fiscali, come Bermuda o Isole Cayman, dove il prelievo è praticamente inesistente. I fautori dell’accordo sostengono che questa svolta interrompe la corsa al ribasso che ha causato, in tutto il mondo, una progressiva riduzione del prelievo sulle imprese, senza che questo abbia generato vantaggi per l’economia nel suo complesso. Sino a giungere a situazioni paradossali: 55 tra le più grandi aziende Usa tra cui Nike, Hp o Fedex, hanno pagato zero dollari di tasse nell’ultimo anno ma hanno anzi ricevuto 3 miliardi in forma di crediti di imposta.
È vero che dopo anni di infruttuose interlocuzioni si riesce a dare forma a un’intesa concreta. Ma è vero altresì che il 15% è un’aliquota bassa (gli Stati Uniti avevano proposto il 21%), vicina a quella di paesi come l’Irlanda (12,5%) che sulla competizione fiscale a danno degli altri paesi hanno impostato un sistema economico. La corsa verso il basso verrebbe sostituita da una corsa verso il minimo. Meglio, ma non risolutivo. Secondo le prime stime l’aliquota unica al 15% dovrebbe comunque garantire un gettito aggiuntivo di 240 miliardi di dollari a livello globale, fino a 70 miliardi nella zona euro e oltre 3 miliardi (2,7 miliardi di euro) per la sola Italia.
Competitività “al rialzo” e non più “al ribasso” – L’altro pilastro della riforma è il sistema che permette di condividere una parte del gettito tra tutti i Paesi in cui una multinazionale opera. La parte che eccede il 10% di margine operativo, vale a dire la differenza tra i costi sostenuti per la produzione e i ricavi ottenuti dalle vendite, potrebbe, per una quota di “almeno il 20%”, essere tassata nel paese dove l’azienda realizza le vendite, con il suo normale prelievo sui profitti societari (in Italia al 24%). Questa possibilità scatta se l’azienda realizza in un paese ricavi per almeno un milione di euro l’anno, soglia che scende a 250mila euro nelle economie più piccole (Pil al di sotto dei 40 miliardi). Esempio: se la società estera X in Italia ha ricavi per 10 miliardi e costi per 8 miliardi con una differenza (il margine) di 2 miliardi ossia il 20% dei ricavi, una quota del 20% della parte eccedente il 10% (ossia 1 miliardo) del margine, e quindi 200 milioni, potrebbe essere tassata nel nostro paese con la nomale aliquota del 24% con un gettito di 48 milioni.
Nel complesso, l’ambizione della riforma è quella di spostare il paradigma della competitività, come ha recentemente spiegato la segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen, una dei principali artefici della “rivoluzione”. Da una corsa tra paesi “al ribasso” (meno tasse, meno diritti, meno regole, meno stipendi) ad una corsa verso l’alto in cui un paese diventa più attrattivo perché dotato di (forza lavoro più istruita, investimenti in scuola e infrastrutture, etc).
I punti deboli della riforma – Il diavolo però sta nei dettagli. Gli Stati Uniti chiedono ad esempio che, con l’entrata in vigore della riforma, realisticamente dal 2022, vengano eliminate le web tax che una trentina di paesi, tra cui anche Italia, Francia e Gran Bretagna, applicano oggi a colossi web come Facebook o Google. Secondo alcune simulazioni dallo scambio i colossi statunitensi potrebbero persino guadagnare, finendo per pagare meno tasse di quanto non facciano oggi. Londra ha poi ottenuto di esentare la City e quindi le banche internazionali che qui hanno sede, dal nuovo regime fiscale. Ancora, la soglia del 10% del margine operativo mette in salvo colossi come Amazon che hanno margini bassi a causa degli alti costi ma guadagnano miliardi grazie al gigantesco volume di vendite.
Nel complesso la bozza di riforma è favorevole agli Stati Uniti che cedono poca base imponibile agli altri paesi, salvaguardano i loro campioni nazionali del web e avvicinano la tassazione globale alla aliquota che l’amministrazione Biden vuole alzare dal 21 al 28%. L’Europa dal canto suo fa resistenza sull’ eliminazione delle web tax mentre spinge al ribasso il compromesso sull’aliquota unica, per assecondare le posizioni di stati membri come l’Irlanda. La formula ch esi sta delineando è sgradita anche a molti paesi poveri, che in partica vengono quasi del tutto esclusi dalla compartecipazione al gettito, anche se le multinazionali operano nei loro confini.
Il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire ha spiegato che il prossimo passo sarà il G20 finanze di Washington a ottobre, dove “dovremo definire gli ultimissimi parametri di questa nuova architettura fiscale”: sulla quota degli utili delle multinazionali da riallocare ai Paesi dove queste effettivamente svolgono le proprie attività “il 20% non sembra abbastanza, il 30% potrebbe essere troppo, dunque la proposta francese è raggiungere un consenso al 25%”.
Quanto all’altro aspetto, quello dell’aliquota minima globale, “credo fortemente che il 15% non sia abbastanza, dobbiamo fare di più e la Francia, con alcuni partner rilevanti del G20, punta a più del 15%”. Le Maire ha confermato l’obiettivo che l’accordo globale diventi efficace al massimo entro il 2023, e che la Francia “rimuoverà la sua tassa nazionale sui servizi digitali non appena l’accordo sarà implementato a livello Ocse diventando efficace”.