Cinema

Cannes 2021, Tre piani di Nanni Moretti: la recensione del film che rivisita il romanzo di Eskhol Nevo

Forse è il lavoro della maturità che supera l’età adulta suggellata da Mia madre, ma certamente non appare il più riuscito nella filmografia del regista

di Anna Maria Pasetti

Se è vero che la prima inquadratura è spesso la sintesi di un film, ciò appare assai vero per Tre piani, il nuovo film di Nanni Moretti in concorso al 74° Festival di Cannes. La macchina da presa mette in quadro la facciata di una casa nella notte: un edificio elegante, dal portone antico ma dagli elementi abbastanza moderni, vi s’intravedono anche degli alberi. Il silenzio accompagna il riposo dei suoi residenti, finché questo non viene interrotto da un evento improvviso di cui, però, è giusto non dare alcuno spoiler. Si tratta di un’immagine statica dalla composizione classica, capace di fornire all’ambientazione il risalto semantico che merita: un luogo di quiete apparente per anime benestanti articolato in più piani.

Dunque classicità e staticità, a cui è pertinente aggiungere la parola rigore: Tre piani di Nanni Moretti è un’opera dall’impianto narrativo e visivo rigoroso, votata a un ordine formale quale riflesso di quello interiore a cui aspirano i suoi numerosi protagonisti. Uno status di “contrazione composta” che mostra immediatamente l’attrazione verso il suo opposto, l’utopia di pace dell’essere umano, le cui relazioni – invece – poggiano sulle inquietudini, sull’antitesi a quel silenzio che ogni cosa vorrebbe coprire. Così avviene che i tre piani abitati dai quattro nuclei famigliari protagonisti del testo divengano ciascuno per sé il sintomo di desiderata diversamente espressi, o ancor meglio inespressi perché trattenuti nell’(in)coscienza di un Sé che è proprio compito del testo cinematografico tentare di rivelare.

Il film, come è noto, rivisita il magnifico omonimo romanzo di Eskhol Nevo (Neri Pozza Ed, 2015): un libro complesso, fortemente metaforico, profondamente ancorato alle radici culturali e storiche del popolo israeliano. È la prima volta che Nanni Moretti sceglie di dirigere un lungometraggio a partire da un soggetto non originale, cioè da una materia non propria: si tratta di una decisione importante e radicale come ogni gesto proveniente dal cineasta romano. A livello di rielaborazione operata sulla fonte di partenza, il film sposta l’azione da Tel Aviv a Roma e mescola gli accadimenti delle famiglie in un unico flusso narrativo, elidendo dunque quella sostanziale separazione dei tre piani in tre capitoli ben distinti del romanzo, ma sopratutto cancella i background da una Memoria collettiva e storicamente dolente. Intatto, però, resta il sapore umanista del racconto, attento ai sentimenti sviluppati davanti ai grandi temi dell’esistere: l’amore, la paura, la solitudine, il segreto, il dubbio.

In Tre piani si assiste a uno stile diversamente morettiano, per quanto assai morettiane siano le spinte tematiche del testo da lui stesso scelto. Ma l’umorismo e l’ironia del vivere, che da sempre accompagnano le visioni delle opere del Nanni nazionale, con l’unica eccezione de La stanza del figlio, indimenticabile Palma d’oro qui a Cannes nel 2001, sono totalmente assenti e sostituiti da rigore, gravità, compostezza. Forse Tre piani è il lavoro della maturità che supera l’età adulta suggellata da Mia madre, ma certamente non appare il più riuscito nella filmografia di Moretti.

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