Politica

Lo specchio delle mie brame di Grillo Primo, re del Vaffa

“Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più elevato del reame?”.

Con il fresco venticello di Sant’Ilario ad arruffargli le chiome cotonate, il sovrano pentastellato interrogava ogni mattina con la sua vocina chioccia il megaschermo magico, per riceverne le conferme con cui alimentare la propria iomania da primadonna. Fino a quel tragico giorno in cui apparve il severo volto da bancario del massimo sondaggista di corte Nando Pagnoncelli, nunzio della ferale notizia: “Sire Grillo, elevato tu sei, ma qualcuno c’è, che è ben più elevato di te”.

Fu così che Beppe Primo, signore del Vaffa, apprese di essere stato vaffato da un umile famiglio: Giuseppi Biancofiore, il moroteo così nomato dal celebre inno della Democrazia Cristiana che fu; portato a corte dalla lontana Volturara Appula e adibito a compiti di guardianaggio ai vertici del governo gialloverde, per evitare che Gambadilegno Salvini si cucinasse in salmì il tenero coniglietto Di Maio.

Davanti al proprio crollo nella hit parade dell’audience, il vanitoso monarca del regno di Cinquestelle incominciò a sbroccare nella sua incontenibile logorrea, mandando in onda video facebook pieni di frasi incomprensibili, in un evidente delirio caotico: “Draghi e Cingolani sono grillini”… “Ciro e i suoi amici, ragazzi che si divertono”… “bisogna andare a parlare con l’ambasciatore cinese”… “Luigi Di Maio è il miglior ministro degli esteri della Repubblica italiana”… Per arrivare al puro nonsense: “sono il garante, non sono un coglione”. Affermazione con cui aveva incominciato a sostituire quella dedicata a magnificare i meriti di “washball”; la pallina in ceramica traforata per lavare la biancheria ecologicamente, senza fare uso di detersivo.

Poi, in un improvviso soprassalto di lucidità, l’elevato garante si rese conto che occorreva eliminare la minaccia rappresentata dal paggio Giuseppi; rifilandogli una mela avvelenata sotto forma di statuto. La trappola di affidargli il compito di elaborare una proposta e poi liquidarla proferendo il verdetto enigmatico che l’incaricato di rilanciare il Movimento non sapeva niente del Movimento. E – contemporaneamente – impedire di essere sbalzato dal trono con una mossa d’anticipo: distruggere lui stesso il proprio regno cancellando deliberatamente tutte le conquiste che ne avevano costellato i successi: la riforma dei processi salvaladri, il cashback anti-evasione, il salario minimo, il blocco ai licenziamenti, la progressività fiscale e così via.

In preda a un irrefrenabile furore iconoclasta, era pronto a gettare nella pira ardente perfino il fiore all’occhiello del reddito di cittadinanza; rimettendosi all’azione distruttiva a passo dell’oca del grifagno premier Mario Bancor Draghi, dei suoi presunti tecnici, killer di ambiente e coesione sociale, dell’inquietante figura scheletrica di vestale varesotta della restaurazione Marta Cartabia.

Purtroppo – a differenza delle favole – non comparvero i sette nani coraggiosi, capaci di difendere il tesoro politico M5S dalla volontà suicida di un falso profeta, vendicativo e casinista, volta per volta omaggiato (e/o auto-gratificato) dei titoli di “fondatore”, “elevato”, “nuovo Gandhi”, “visionario”, “insindacabile giudice delle capacità manageriali altrui” (difatti è diplomato ragioniere). Il falso profeta ormai definitivamente smascherato.

Che non sarà certamente rimesso a posto quale cinico pifferaio magico dal tremebondo Dimaiolo, il declassato Patuanellolo, i miracolati D’Incaiolo e Dadonolo; simil-puffi che sono stati letteralmente calpestati sul tema giustizia dal duplice Matteo Gargamella, Renzi e Salvini. Sotto lo sguardo compiaciuto del premier, incoronato a suo tempo da quel Beppe Grillo che qualcuno accrediterebbe di intelligenza politica. Eppure il cui super-ego – come si diceva – continua ad annichilire i ministri nanetti della sua corte. Cui si aggiungono, per fare quota sette, gli ex – ma sempre a scartamento politico minimo – Presbitero Lezzola e il lunare Toninellolo. Per non parlare del sistematico scappato di casa, il disperso in un terzomondismo a fumetti Di Battistolo.

Ha preso così forma il quadro di una terribile desolazione in viaggio verso l’incubo, in cui viene dilapidato persino il patrimonio prezioso di credibilità dello sballottato Giuseppi. Sicché – in questa deprimente realtà, tanto lontana dalle favole – non sembra si profili all’orizzonte nessun principe azzurro. In grado di fungere da salvatore con un bacio (non si sa a chi) e assicurarci il lieto fine.