di Pietro Luigi R.

Alle Europee del 2014 votai per il suo Pd. Ero convinto che finalmente, dopo anni di politica stantia fatta di vecchi che parlano da vecchi e agiscono da vecchi, fosse arrivato il vento della giovinezza della nuova politica italiana: progressista, liberale e innovatrice. Pazzesco che in appena due anni riuscì a cancellare tutto quanto. E già che non diedi molto peso al modo in cui si prese la Presidenza del Consiglio, nonostante fu un bel campanello d’allarme. Letta fu l’agnello sacrificale di un partito che, col fallimento di Bersani delle politiche 2013, aveva bisogno di aria fresca, e ai tempi chi l’avrebbe immaginato che quell’aria si sarebbe trasformata in una cappa di malsano odore che travolge qualunque cosa gli passi vicino?

Ci eravamo cascati un po’ tutti, ammettiamolo. Oggi di quella freschezza non rimane nulla. Solo il fastidio di una demagogia agonizzante, reietta al 98% degli italiani e che, quando sembra aver toccato il fondo, riesce a scavare buche sempre più profonde.

Oggi è il Reddito di Cittadinanza il baluardo su cui puntare la forca, strumento demonizzato non nel merito ma solo ed esclusivamente per bieca politica. Il rottamatore (di se stesso) vuole raccogliere le firme per abolire il sostegno alle fasce deboli della popolazione, perché ormai è sua piena esclusiva distruggere tutele (vedi Jobs Act) e ignorare i meno abbienti (vedi Bonus 80 euro). Nemmeno i politici più intolleranti hanno avuto il coraggio di dire “Vi togliamo il reddito, perché per lo Stato sostenervi è un peso non un dovere”. Lui invece l’ha fatto! Perché può farlo, in forza di una popolarità andata a farsi benedire da tempo. Come il tizio che non inviteresti mai a mangiare a casa tua, perché non lo stimi e non ti fidi, ma è il primo che ti viene in mente quando c’è da fare un lavoro sporco. Dietro misera ricompensa.

Sette miliardi (dati Istat) è il costo del Reddito di Cittadinanza su un bilancio dello Stato da oltre 800 miliardi di spese: 7 miliardi su 800 su cui fare la guerra politica più squallida che si sia mai vista nella storia della Repubblica. Perché ci sono i furbetti, dicono. Gli stessi furbetti che non pagano il biglietto per la metro, eppure le metro non le aboliscono, sarebbe una follia. Sette miliardi suddivisi per 1,7 milioni di nuclei familiari in stato di povertà che, secondo gente il cui stipendio ammonta ad oltre 15 mila euro al mese, sono uno spreco e un danno. Sette miliardi che i percettori trasferiscono, obbligatoriamente, nelle casse di piccole e medie imprese. Commercianti, negozi, fornitori di carburanti, piccoli alimentari. Il RdC, se ancora qualcuno non se ne fosse reso conto, è solo formalmente una misura alle famiglie, ma è sostanzialmente un sostegno alle imprese, alla luce del vincolo di spesa obbligatoria per chi lo percepisce.

In questa narrazione svilente e umiliante nei confronti di chi per la prima volta ha visto lo Stato porgere una mano, sono pochi coloro i quali chiedono invece una riforma (giusta) del RdC. I centri per l’impiego non funzionano, sono un insulto per un Paese come il nostro. Offerte di lavoro per chi ha avuto accesso alla misura non ne arrivano e quel che arriva è davvero troppo poco. Ed è ciò di cui dovremmo sentir parlare, anziché di un colpo di spugna ingiusto che riporterebbe il welfare-state italiano indietro di 4 anni, nella tanto sbandierata cornice europea.

L’ipocrisia della narrazione di chi descrive i percettori come ladri, farabutti, nullafacenti è divenuta insopportabile. Sono gli stessi narratori che, poi, se la prendono se li chiami corrotti, perché la sentenza non è ancora definitiva.

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