La solitudine assoluta del Movimento 5 Stelle sul fronte della giustizia e l’ostilità generalizzata che ha accompagnato dall’inizio la riforma Bonafede, manifestamente indigesta prima a Matteo Salvini e poi nel Conte 2 strenuamente avversata da Matteo Renzi con il supporto molto attivo del Partito democratico, sono arcinote e di lungo periodo. E dunque non ci voleva un mago per prevedere che all’interno del Governo Draghi il M5s si sarebbe trovato a dover difendere la sua riforma più identitaria e più importante da solo e a mani nude contro un fronte formidabile e trasversale, determinato a ripristinare con ogni mezzo e sotto mentite spoglie, di qualsiasi genere, l’amata ed irrinunciabile prescrizione.
Quello che non si poteva e non si voleva immaginare è stata la sostanziale umiliazione a cui si sono sottoposti coinvolgendo sciaguratamente eletti, iscritti ed elettori i quattro ministri pentastellati, tra cui Stefano Patuanelli sulla carta di fede contiana, che invece di astenersi attenendosi all’indicazione dei direttivi di Camera e Senato hanno dato il loro assenso al ddl Cartabia.
Secondo fonti di “primo piano” all’interno del M5s a determinare il passaggio dall’astensione al Sì sarebbe stato il pressing di Beppe Grillo a sua volta fortemente sollecitato da Mario Draghi, e sui social abbondano oltre a proteste e sacrosante critiche di iscritti ed elettori anche accuse ed insulti contro “Grillo sotto ricatto per le note vicende del figlio” che avranno mandato in visibilio Sgarbi, Giletti ed accoliti. I ministri si sono “difesi” lasciando intendere di essersi fatti intimidire da un Draghi spazientito, che oltre a prospettare il ritorno alla formulazione originaria senza nemmeno quell’aumento temporale in Appello e Cassazione ottenuto dal M5s per i reati contro la Pa, corruzione in primis, avrebbe addirittura minacciato la crisi di Governo.
E naturalmente i ministri hanno ritenuto di “non potersi assumere la responsabilità di una crisi”. Comportamento che si può anche tradurre, senza giri di parole, come ha fatto Alessandro Di Battista con la semplice constatazione che “non è Draghi ad essere diventato grillino, ma sono certi grillini ad essere diventati draghiani” e che i ministri pentastellati si sono rivelati “pavidi ed incapaci” nonché decisamente poco propensi ad abbandonare la poltrona prima del 2023.
Questo in sintesi lo stato dell’arte che si prospetta per Giuseppe Conte, finalmente capo politico del Movimento “risanato”, che si è da subito pronunciato in modo netto sulla controriforma della Cartabia “il ritorno a quella che è un’anomalia italiana” con la considerazione, condivisibile da chiunque abbia a cuore un elementare principio di giustizia, che se un processo finisce nel nulla per la tagliola della improcedibilità non può essere “una vittoria per lo stato di diritto”.
Infatti, ammantata dalla formula di comodo e truffaldina “ce lo chiede l’Europa”, il testo della giurista magnificata a 360 gradi spiana di fatto la riforma Bonafede su cui la Commissione Europea si era espressa in modo inequivocabile già nel febbraio 2017, quando chiedeva di interrompere i termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado per “disincentivare tattiche dilatorie da parte degli avvocati” ed aveva coerentemente salutato come “benvenuta” ed “in linea con le raccomandazioni” la legge voluta con coerenza dal M5s.
Anche se con i modi felpati ed accattivanti con cui pare abbia in animo di competere nella gara per il Quirinale, la ministra Marta Cartabia ha sottolineato a più riprese che la sua riforma “conserva in primo grado l’impianto della prescrizione della legge Bonafede e chi l’aveva proposta potrebbe ritenersi soddisfatto”. Una dichiarazione che vuole essere conciliante, ma che risulta sostanzialmente ipocrita e contraddetta dai dati concreti ed oggettivi di cui, nonostante lo stato di abbattimento in cui versa la magistratura, anche l’Anm (Associazione nazionale magistrati) – dopo gli allarmi lanciati da Napoli, Roma, Reggio Calabria, Milano – si sta facendo portavoce.
In troppe sedi, secondo i dati del ministero della Giustizia del 2019, i processi di appello durano più dei due anni previsti dalla Cartabia per il blocco-estinzione del processo. Anzi come spiega Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm, al Fatto Quotidiano il decorso dei due anni inizierà alla presentazione dell’atto di appello che si deposita davanti al giudice di primo grado: a Roma solo per il passaggio del fascicolo dal tribunale alla Corte di Appello ci vuole un anno. A Milano si fa notare in procura che con l’improcedibilità nel termine dei due anni dalla presentazione dell’impugnazione il processo si vanificherebbe “prima ancora che il fascicolo arrivi materialmente in Appello e che sia fissata l’udienza”.
Si tratta di un effetto palesemente irragionevole ed inaccettabile, e cioè di quell'”amnistia occulta” denunciata da Davigo e Gratteri, ancora peggiore di una amnistia palese una tantum perché questa diventerebbe organica e continuativa, sempre che non si arrivi all‘inimmaginabile: il varo di un’amnistia vera e propria per alleggerire il cumulo dei processi pendenti propedeutica alla riforma Cartabia, prospettata da Magistratura Democratica, corrente targata Pd.
Per non parlare poi dell’allungamento dei tempi processuali prodotto dalla “rinnovazione degli atti del giudizio”, quando un giudice deve lasciare per qualsiasi motivo il processo, e dall’allarme per gli evidenti profili di incostituzionalità in riferimento ad obbligatorietà dell’azione penale e separazione dei poteri, rappresentato dal ritorno di un evergreen berlusconiano: la priorità dei reati da perseguire assegnata al legislatore.
La strada per sventare la conferma in Aula di una riforma rovinosa è strettissima e quasi al limite dell’impraticabilità per chi vuole dare battaglia, come sembra determinato a fare Conte con il M5s, si spera almeno per una volta su un tema dirimente e non negoziabile, compatto e determinato dopo il cedimento in Consiglio dei ministri. I tempi sono strettissimi data l’accelerazione imposta da Draghi, visto che il testo approderà in commissione Giustizia alla Camera entro pochi giorni. E i fuochi di sbarramento per vanificare la trattativa che proverà a mettere in atto Conte, finalizzata quantomeno a ridurre le aberrazioni degli emendamenti della Cartabia, sembrano già accesi.
Da un lato la propensione di Draghi a blindare la riforma uscita dal Cdm persino con il voto di fiducia; dall’altro il rischio molto concreto di modificazioni “di senso opposto” e cioè peggiorative al testo della Guardasigilli annunciate da Matteo Renzi, già in sinergia con Salvini sui referendum, e che naturalmente sarebbero votate con slancio da Forza Italia e “garantisti” sparsi e numerosi anche nel Pd lettiano, dove si sono ascoltate reazioni entusiastiche e scemenze a go go su improcedibilità ed annessi (vedi Serracchiani e Quartapelle).
Peter Gomez ha indicato come percorso praticabile per il M5s la presentazione di pochi emendamenti per ridurre i reati e i relativi dibattimenti, per incentivare i patteggiamenti (possibile, aggiungerei, solo se non c’è l’impunità garantita per legge) e per aumentare i giudici in appello. E poi “condurre una battaglia durissima. Non importa se la vincerà o la perderà. Importa che per una volta la combatta”.