Tutti contenti, tutti orgogliosi, tutti zitti (o quasi) quando l’attuale governo presieduto da Mario Draghi presenta la propria proposta per il Recovery plan, cioè il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ossia lo strumento strategico che dovrà guidare l’Italia fuori dalla crisi e verso un pieno sviluppo delle proprie potenzialità. Per assurdo, è lo stesso Draghi a ricordare i rischi e le insidie che si frappongono tra l’entusiastica accoglienza del piano da parte di quasi tutto il Parlamento e la sua effettiva attuazione. Spero ardentemente che si possa in qualche maniera correggere la rotta, ricordando che ci sono ancora diverse valutazioni da superare per un pieno ed effettivo via libera.
Draghi stesso ricorda che se da una parte la situazione economica è in forte miglioramento – secondo la Commissione europea nel 2021 e nel 2022 l’Italia crescerà rispettivamente del 4,2% e del 4,4%, come il resto dell’Ue – ci sono ancora dei rischi. Primo tra tutti, la pandemia che, a voler essere ottimisti, al momento sembra sotto controllo ma che sappiamo tutti non essere stata ancora debellata. I continui allarmi sulle nuove varianti possono rallentare le riaperture e, vedendola in positivo, frenare quei consumi ed investimenti che certo non hanno fatto bene al nostro ecosistema.
Certamente, se fosse l’occasione per ripensare, veramente e radicalmente, ai nostri consumi, allora potrebbe essere una grande occasione per ripartire in modo più sostenibile e con maggiore attenzione alle risorse (scarse) del nostro pianeta. Ma sappiamo già che non sarà così; il Governo più volte ha dichiarato che le vaccinazioni in atto sono un mezzo per tornare alla situazione pre-pandemia. Sarebbe invece il caso di porsi l’obiettivo di puntare ad una situazione che sia migliore della precedente, e non solo perché si è debellata la pandemia ma perché si è cambiato il modello di sviluppo.
Anche se le banche centrali sembrano più ottimiste, Draghi continua ad affrontare il tema dell’inflazione con molta cautela, trattandosi evidentemente di un potenziale pericolo per la ripresa che in Europa, negli ultimi 3-4 mesi, è aumentata di pochi decimi di percentuale. Al momento sono tutti concordi nell’affermare che questo aumento sia temporaneo, in quanto legato ad un recupero della domanda, a strozzature dell’offerta e a effetti contabili. Secondo le logiche standard, il debito rimane una potenziale minaccia per il rilancio dell’Italia. Nel corso del 2020, il rapporto debito-Pil nell’Ue è salito di 16,7 punti percentuali; in Spagna di 25,7, in Francia di 18,5 e in Italia di 15,8 punti (21,2 con la crisi Covid).
Nel 2020, i governi europei hanno utilizzato in maniera corposa le garanzie statali, per un totale di 450 miliardi di euro nei soli quattro Paesi più grandi dell’Ue. A detta di Draghi, nel medio-lungo termine sarà importante però che i Paesi tornino ad una “politica di bilancio prudente” al fine di evitare che venga recepito un messaggio sbagliato e si inneschi una corsa al rialzo dei tassi di interesse.
I temi ove vi sarà una particolare attenzione e sui quali si valuterà sul serio il lavoro del governo riguardano la coesione sociale e la sostenibilità ambientale. Non occuparsi di questi temi sarebbe un grave errore e, purtroppo, la partenza del Pnrr ci preoccupa molto. L’Italia, secondo i dati della Camera dei deputati, destina il 37,5% delle risorse al settore ambientale, contro il 59% dell’Austria e della Danimarca; ma anche la Francia (46%) e la Germania (42%) fanno di più di noi. Il mondo ambientalista arriva ad affermare che tale percentuale non va oltre il 13% (19 miliardi), mentre un altro 28% (66,7 miliardi) viene identificato come interventi con probabile impatto sul clima.
Ma ciò che preoccupa di più è la mancanza di una strategia complessiva per la transizione verde. Senza dimenticare che la crisi pandemica ha allargato le disuguaglianze e colpito soprattutto i meno abbienti, i giovani e le donne. Intervenire con politiche adeguate è, quindi, fondamentale. Inoltre, i cambiamenti climatici stanno già distruggendo alcune aree fragili del nostro paese e del nostro pianeta.
La differenza tra 1,5, 2 o 3°C nella media dell’aumento del riscaldamento globale può apparire marginale: in realtà, tali temperature rappresentano scenari enormemente diversi. La frequenza dei disastri, la sopravvivenza di piante e animali, la diffusione di malattie, la stabilità del nostro sistema climatico mondiale e, in definitiva, la possibilità per l’umanità di sopravvivere su questo pianeta si incardina su questi pochi gradi. Ovviamente, ciò non significa che moriremo tutti in breve tempo, solo che ci dovremo adattare a condizioni non proprio facili da accettare e soprattutto non a costo zero.
L’obiettivo di +1,5°C (Accordi di Parigi) può essere ancora centrato e tutti attendono la prossima Cop26 di novembre come una tappa fondamentale per la lotta al cambiamento climatico. Tuttavia sappiamo già che non saranno solo le decisioni governative (che si attendono ormai da 30 anni!) a far invertire la rotta: dipende anche da noi stessi, dalle nostre azioni quotidiane di abitanti di questo pianeta. Purtroppo abbiamo avuto sempre poca fiducia nell’azione collettiva, ma adesso non abbiamo più scelta: o cambiamo passo o dovremo accettare di vivere su un pianeta ove la lotta per la sopravvivenza sarà sempre più dura. All’inizio, probabilmente, noi paesi sviluppati potremo in qualche modo cavarcela, ma prima o poi arriverà anche il nostro turno.