L'INTERVISTA - Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ed ex dirigente del Dap: "Messa alla prova anche per reati puniti fino a sei anni di carcere? Sono d'accordo, ma nei Paesi in cui si applica massivamente c’è anche un 'probation office' che controlla". In Italia invece? "Basterà un contratto di lavoro, anche falso, e un colloquio semestrale con l’assistente sociale per continuare a commettere reati. Ed il sistema penale continuerà a sprofondare"
Un sistema con meno carcere e più pene alternative alla detenzione: domiciliari, semilibertà, lavori socialmente utili. E poi più spazio alla cosiddetta giustizia riparativa: chi ha commesso il reato ripara il danno causato alla vittima. È questa la giustizia immaginata da Marta Cartabia, la guardasigilli che nelle scorse ore ha inviato alla competente commissione della Camera gli emendamenti alla legge delega che riforma il processo penale. A parte la contestata riforma della prescrizione – che vara un sistema d’improcedibilità per i procedimenti d’appello che durano più di due o tre anni – tra le norme presentate dal governo c’è anche l’estensione del novero dei reati per cui è possibile chiedere la messa alla prova con sospensione del processo: dalle fattispecie punite fino a quattro anni si passa a quelle che prevedono una pena fino a sei anni. Un sistema giuridico che ricalca il modello anglosassone, ma che in Italia rischia di avere una “deriva burocratica“. Peggio: una “deriva criminogena” in cui si continua a commettere reati. Parola di Sebastiano Ardita, magistrato esperto delle questioni relative alla detenzione: è stato direttore generale del Trattamento detenuti del Dipartimento amministrazione penitenziaria, poi procuratore aggiunto a Messina e Catania, mentre oggi è consigliere togato del Csm.
La ministra Cartabia sostiene che “la certezza della pena non è la certezza del carcere”. Dottore Ardita, lei è d’accordo?
Sono certamente d’accordo. E credo che non esista una espressione che possa sintetizzare meglio il bisogno di separare la penalità dal carcere, come avviene in tutti i paesi moderni che hanno rinunciato alla dimensione puramente afflittiva della pena. Ma temo che il nostro Paese sia assolutamente impreparato ad affrontare questa importante sfida.
Perché?
Perché per la probation non basta la previsione di un articolato normativo, ma occorre un apparato di uomini preparati allo scopo e di mezzi, altrimenti diviene lo strumento di una ulteriore elusione della pena. Nei Paesi in cui si applica massivamente la messa alla prova e la pena alternativa, c’è anche un “probation office” che lavora e illumina gli occhi del giudice che decide. Ogni mattina chi è messo alla prova riceve la visita di chi è chiamato a verificare se lavora, se fa uso di sostanze, come si comporta in famiglia. E durante la giornata può ricevere controlli per capire chi frequenta. Solo con queste condizioni di cautela si può fare in modo che chi poteva stare in carcere sia libero, con un vantaggio per la società. Altrimenti rischiamo la deriva burocratica, direi quasi una deriva criminogena: basterà un contratto di lavoro, anche falso, e un colloquio semestrale con l’assistente sociale per continuare a commettere reati. Ed il sistema penale continuerà a sprofondare…
Proprio per incentivare misure alternative al carcere, la riforma Cartabia estende la possibilità di ricorrere all’istituto della messa alla prova anche ai reati puniti con pene fino a sei anni di carcere. Secondo lei non è una soglia troppo alta?
In sé potrebbe non essere un tetto alto se i controlli funzionassero. Noi abbiamo un corpo di polizia penitenziaria che da anni attende una nuova riforma. Con una attività di formazione intensiva in poco tempo potrebbe essere in grado di reggere la sfida di rendere efficienti probation e pene alternative.
Tra quelle punite fino a sei anni si trovano alcune fattispecie come l’associazione a delinquere: non sono reati troppo gravi per concedere subito la messa alla prova?
Naturalmente la criminalità organizzata fa sempre storia a sé, quindi occorre fare molta attenzione. Ma, come abbiamo visto, la stagione degli automatismi è ormai superata dallo stigma della illegittimità costituzionale. Spetterà dunque al giudice decidere con attenzione caso per caso. Una giustizia attenta e professionale non avrà bisogno di ripararsi dietro il muro degli automatismi.
Sempre tra gli emendamenti presentati dal governo alla riforma, alcuni prevedono che siano direttamente i giudici del processo – e non di sorveglianza – a poter concedere misure alternative al carcere, direttamente dopo la condanna o il patteggiamento. Per i reati puniti fino a 4 anni si potrà concedere la detenzione domiciliare, oppure la semilibertà. Fino a 3 anni il lavoro di pubblica utilità: un sistema all’americana. Lei come la vede?
La vedo bene anzi benissimo, ma solo se si riuscirà ad organizzare il modello dei controlli di cui parlavo prima. C’è poi in questa scelta una dimensione anglosassone che lega la pena e la sua esecuzione al giudice della cognizione. Il ché potrebbe dare buoni risultati anche nei percorsi di reinserimento, senza mortificare però l’esperienza della magistratura di sorveglianza. Senza tutte queste cautele, non la vedo affatto bene.
È possibile applicare al sistema italiano la giustizia riparativa, alla quale la guardasigilli sembra molto affezionata?
Quella della giustizia riparativa – su adesione volontaria di tutte le parti – è una necessità più che una opportunità. La mediazione penale tra vittime e autori di reato – così come si chiamava nella sua prima versione di cui mi sono impegnato a favorire la diffusione – rappresenta la punta avanzata del trattamento penitenziario. Essa ha prodotto effetti incredibili sia nel recupero dei condannati che nel superamento delle lacerazioni morali patite dalle vittime. Chi conosce questa esperienza e conosce il carcere sa che dovrebbe essere incoraggiata è diffusa il più possibile.
Ha fatto molto discutere la riforma della prescrizione, con l’improcedibilità in appello che farà “morire” i processi se non si concludono entro un determinato periodo di tempo. In questo modo non sarà più conveniente fare ricorso per l’imputato?
Mi sembra una risposta così evidente che rinuncio anche a formularla. Sarebbe l’ennesimo investimento che viene fatto sui tempi lunghi del processo. In un clima annunciato di rinnovata attenzione per le garanzie individuali, che meriterebbe un ben diverso accredito sul piano gestionale, non mi pare un buon biglietto da visita.
Oggi l’Italia è tra i Paesi dell’Unione europea con meno magistrati: sono 12 per 100mila abitanti. Il Recovery plan stanzia circa tre miliardi per il settore giustizia, prevede l’assunzione di 16mila dipendenti, ma di nessun magistrato.
Questo è vero. Ma aggiungo che le risorse finora sono state impiegate male. Sarebbe preferibile investire in modelli organizzativi agili ed efficienti, piuttosto che nell’assunzione di uomini e mezzi impiegati senza un criterio è costretti a rincorrere le pastoie di processi lunghi e defatiganti.
La prima trasferta del premier Draghi e della ministra Cartabia, in tandem, è stata nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, teatro delle violenze della polizia penitenziaria dopo le rivolte del marzo 2020. Lei che è stato un alto dirigente del Dap, come valuta questa vicenda?
La vicenda è gravissima ma è solo l’ultimo fotogramma di una prolungata di disattenzione verso questo pianeta. Rispondere a un evento del genere con un provvedimento emotivo sarebbe un errore, ma non c’è dubbio che bisogna ripartire con una azione decisa che riavvicini la popolazione detenuta alle istituzioni. Occorre rinnovare la fiducia negli agenti e offrire un orizzonte di speranza a chi è detenuto.