Zara e Benetton hanno vita dura in America Latina. I due marchi del tessile a costo accessibile sono chiamati a fare i conti con l’orgoglio e la cultura identitaria delle comunità indigene.
Da anni il gruppo dei fratelli Benetton è in contrasto con gli indios mapuche, il popolo amerindo rivendica diritti ancestrali su fette di territorio della Patagonia argentina acquisite dalla multinazionale trevigiana per il pascolo di ovini da cui ricavare lana merinos per la produzione di capi di abbigliamento nella vecchia Europa. Una disputa fatta di giudizi civili, di occupazione di appezzamenti, di clamore internazionale visto il peso dei Benetton e l’idiosincrasia che la famiglia ha attirato a sé negli ultimi anni.
Non va meglio a Zara, storica rivale dei Benetton, parte del Gruppo Inditex, colosso del tessile nato in Galizia, nel nord della Spagna. Qui non sono in discussione diritti reali, rogiti notarili versus “diritti ancestrali”, oggetto della contesa tra i signori del tessile e piccole comunità sono diritti immateriali.
I discendenti dei Maya difendono loro disegni e ornamenti, intessuti con pazienza per essere venduti nei “rastros”, i mercatini delle vallate del Chapas o di quelle poste più a sud, dall’assalto delle multinazionali. Antichissimi disegni che finiscono nei cataloghi online dei grandi produttori europei, con gli artigiani locali che vedono riprodotti i loro modelli, venduti solitamente a pochi pesos, su larga scala e a ben altro prezzo.
La Segretaria del Ministero della Cultura del Messico, Alejandra Frausto, ha inviato poche settimane fa una lettera formale a Zara, con una accusa puntuale: il prendisole “midi”, venduto sul sito web della casa galiziana, presenta chiari segni distintivi della cultura mixteca, in particolare del municipio di San Juan Colorado -nella regione meridionale di Oaxaca-. Una produzione massificata “non autorizzata” del huipil, il tradizionale indumento delle donne indigene frutto di un paziente e meticoloso lavoro, espressione di una creatività collettiva che si tramanda da secoli.
Ottenere la tutela del disegno tessile non è cosa semplice in campo giuridico, c’è da fare i conti con il principio di novità, con la tempestività della registrazione dei brevetti, tuttavia il governo messicano ha con intelligenza messo in relazione la questione del “textile designs” con l’identità collettiva. Con la protezione dei popoli originari riconosciuta da Dichiarazioni Americane, dalla Carta delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli indigeni, dalla Convenzione Unesco sul patrimonio culturale immateriale.
Il dicastero messicano, muovendo da tali principi, chiede a Zara di spiegare pubblicamente su quali basi fa uso commerciale di una proprietà collettiva e come intende ripartire i benefici di quella “appropriazione” culturale con le comunità locali.
Zara non ha ufficialmente preso posizione, ma già in passato i responsabili hanno precisato che da sempre l’ispirazione trae fonte da codici culturali di altri paesi, e all’occorrenza non mancherà di osservare che in fondo il Gruppo Inditex, con più di 400 punti vendita nel paese centroamericano, assicura un buon impiego a migliaia di messicani.
Altre case di moda, come Nike o Louis Vuitton, si sono dichiarate pronte a firmare protocolli con il ministero per l’utilizzo di simboli propri della cultura maya, un buon risultato per il paese guidato da López Obrador.
La questione è avvertita non solo in Messico, pochi anni fa l’associazione guatemalteca di donne per lo sviluppo di Sacatepequez (AFEDES) denunciò l’utilizzo improprio, da parte di multinazionali del tessile, di segni culturali distintivi. Dispute che vanno oltre la contrapposizione con i grandi gruppi, in queste settimane l’associazione si batte contro l’uso in una catena di ristoranti locali di indumenti da lavoro che riproducono simboli maya da sempre utilizzati per ancestrali riti e cerimonie.
Insomma ogni cosa ha il suo preciso valore, i maya del resto amavano ripetere: “Con cacao paghi il cacao, con denaro il denaro e con mais il mais”.