Qualcuno l’ha chiamato “Maleconazo 2.0”. E del tutto appropriato – per quanto criptico possa suonare alle orecchie di chi non abbia particolare familiarità con le cronache cubane degli ultimi tre decenni – appare, nello specifico, il ricorso al gergo informatico. Perché proprio questa – l’esistenza di Internet e la rivoluzione dei metodi di comunicazione e d’informazione – è in effetti non l’unica, ma di certo una delle fondamentali differenze, l’upgrade, tra la prima e la seconda versione degli eventi. O più precisamente, uscendo dalla tecno-metafora, tra quel sta accadendo in queste ore per le strade di Cuba (di tutta Cuba) e quel accadde il 5 agosto di 27 anni fa in quella parte dell’Avana (nota come “Centro Havana”) che, all’altezza dell’hotel Deauville, si estende tra il lungomare – il Malecón, per l’appunto – ed il triangolo racchiuso tra Galiano, Trocadero e Crespo.

Venendo ai fatti. Quel che sta accadendo oggi è sotto gli occhi di tutti. Lo è senza sosta – e proprio questo è il “2.0”, la novità, l’upgrade – perché da tutti filmato, riprodotto, diffuso, visto e rivisto, commentato. Una valanga di immagini e di voci che, se non spiega il perché di quel che sta accadendo – anzi, che talora lo rende per eccesso d’ancor più ardua comprensione – questi accadimenti senza sosta sciorina e moltiplica o, come si dice, “viralizza”.

La gente di Cuba sta protestando. Sta protestando ovunque. Sta protestando contro tutto e per tutto. Per la mancanza di vaccini, di cibo e di libertà. Sta marciando, in una protesta “viralizzata”, contro il virus e contro il governo che non lo combatte in modo adeguato. Sta gridando “abbasso la dittatura” e Patria y vida, in un ribaltamento del tradizionale slogan “Patria o muerte, venceremos” che, negli ultimi sessant’anni, come un leitmotiv, ha scandito tutta la traiettoria del castrismo, suggellando ogni discorso del gran capo, ogni appello ed ogni documento del regime. Un ribaltamento che, peraltro, non è a sua volta che la viralissima espansione del titolo d’una canzone che, tradotta in video da un gruppo “rap”, mesi fa aveva fatto da contrappunto alla protesta – stavolta in difesa della libertà d’espressione – d’un gruppo di artisti chiamato San Isidro.

Quel che accadde 27 anni or sono – il Maleconazo 1.0 o, se si preferisce, il “vero” Maleconazo, quello che tanto il castrismo quanto l’anticastrismo hanno per quasi tre decenni celebrato, da opposte sponde, come “el día de la resistencia” – fu tutt’altra cosa. O meglio fu la stessa cosa in un diverso contesto, una sorta di “bonsai” rispetto al frondosissimo albero che, in questi giorni, va crescendo in ogni anfratto, urbano o rurale, dell’isola. Anche allora alla base della protesta v’era una devastante crisi economica: quella che, dal medesimo Fidel battezzata Periodo especial en tiempos de paz”, seguì il disintegrarsi dell’Unione Sovietica e del sistema economico dal quale Cuba pressoché in tutto e per tutto dipendeva. In pochi anni, tra il ’90 ed il ’93, il prodotto interno lordo di Cuba aveva perduto quasi la metà del proprio valore. E nel paese mancava ogni cosa. O meglio: molte cose si trovavano, ma solo pagandole in dollari, moneta che al cubano “de a pie” era proibito possedere. E la tensione era altissima. Solo qualche settimana prima, il 13 luglio, un rimorchiatore era stato sequestrato da un gruppo di disperati nel porto dell’Avana per tentare una fuga verso gli Stati Uniti. E a sette miglia al largo della capitale era stato intercettato e affondato dalla Guardia Costiera. Quarantadue persone erano morte annegate.

Tutto, in quel torrido giorno d’agosto, si consumò in poche rabbiose ore. Poche ore di protesta intensamente vissute da poche miglia di persone. Poche ore di repressione che, affidate a quelle che allora si chiamavano brigadas de respuesta rápida – formalmente composte da civili volontari, in realtà squadre paramilitari al servizio del governo – culminarono con la discesa in campo dello stesso Fidel che, per pochi minuti, a cose finite, percorse impettito il campo di battaglia.

Poco di tutto accadde quel giorno. Ma un poco che era anche, nel suo poco, la prima manifestazione di piazza contro il regime in più di 30 anni. E che come tale è stata da allora dagli anticastristi celebrata, dall’altro lato dello stretto della Florida. E che, da questo lato dello stretto, i castristi hanno al contrario passato agli annali come un ennesimo trionfo contro le brighe dell’imperialismo e come una testimonianza della magnetica personalità del Comandante en Jefe, capace di domare la protesta con la forza della sua sola presenza e della sua parola.

Le parole di Fidel che allora davvero contarono (5 in tutto) furono in realtà queste: “Chi vuole se ne vada”. Tutte le proibizioni che impedivano ai cubani di partire vennero sospese. Le spiagge dell’isola si riempirono di balseros e almeno 35mila cubani affrontarono su imbarcazioni di fortuna le fatidiche 90 miglia che separano la costa dell’isola dal continente. Molti arrivarono alla meta. Molti morirono durante la traversata e molti vennero sospinti all’indietro verso la base Usa di Guantánamo dove rimasero, per molti anni, ospiti sgraditi del “grande vicino del Nord”. Più che domare la protesta Fidel era tornato – come già aveva fatto 14 anni prima, durante la crisi del Mariel – ad incanalarla verso la forma che i cubani meglio avevano interiorizzato negli anni: chi non è in sintonia col regime, non si oppone, fugge.

Del Maleconazo 1.0 non esistono che poche foto e il mitizzato racconto delle due parti. Oggi, moltiplicato dal 4G e dai cellulari che i manifestanti stringono in pugno, tutto è infinitamente più esteso e grande. Tutto è più visibile. Eppure è anche – a cominciare dalla reazione del governo – per molti aspetti uguale ad allora. Come e perché lo vedremo in un prossimo post.

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