I tifosi dell’Hellas Verona hanno ripetuto quella frase all’infinito. L’hanno trasformata in un coro, l’hanno scritta su uno striscione, l’hanno fatta tintinnare in ogni bar della città. “Quando i mussi volerà, avremo il derby in Serie A”. Solo che le prese in giro hanno tutte lo stesso vizio. Prima o poi smettono di far ridere, si ritorcono contro chi le ha pronunciate. E pur di riuscirci sono capaci di tutto. Anche di far spuntare le ali sulla groppa degli asini. Per i tifosi dell’Hellas l’estate del 2001 è una lunga camminata su un filo sospeso sull’abisso. Il loro mondo si è capovolto. La Serie A è una bolla di sapone pronta a scoppiare contro lo spillo dello spareggio con la Reggina. Ma non basta. Perché tre settimane prima il Chievo ha battuto per 2-0 la Salernitana. E ha conquistato la prima promozione nella massima serie. È l’universo calcistico che si ribalta, il nobile che si ritrova al servizio del servo della gleba, il centro che si scambia di posto con la periferia. Ora gli occhi non sono più puntati sulla città, ma sul Borgo.

Vengono a visitarlo da tutto il mondo. Giappone, Inghilterra, Stati Uniti. I giornalisti si fermano per qualche giorno. Penne in resta, faccia perplessa. Prendono appunti sui loro taccuini e poi spediscono un pezzo in redazione. Il punto di ritrovo è La Pantalona. Qualcuno lo liquida come bar. Altri lo promuovono a osteria. È il polo che calamita i tifosi del Chievo. Nessuno riesce a quantificarli, perché già è difficile calcolare la popolazione autoctona. Qualcuno parla di 1.500 anime. I più generosi mettono a referto un numero tre volte superiore. Ma tutto si fonda su un’equazione all’apparenza sballata: gli abbonati allo stadio sono addirittura più degli abitanti. La festa è austera ma prolungata. La banda suona in piazza attorno al campanile con la lapide che omaggia i caduti, qualche auto avvolta nelle gialloblù suona il clacson lungo la piazza principale, i tifosi sfilano uno dopo l’altro davanti alle telecamere. Raccontano il loro amore per la squadra. Anche se in molti giurano di non averli mai visti, che si tratta di imbucati. O di mitomani.

In quei giorni c’è un cellulare che non smette mai di suonare. È quello di Luca Campedelli. Di lui si sa solo che ama i libri di Nick Hornby e che ha una somiglianza piuttosto marcata con Harry Potter. Solo che quel ragazzo di 34 anni riassume in sé stesso tutto il Chievo. È il presidente della squadra. E anche della Paluani, l’azienda che produce pandori e che sponsorizza i gialloblù. Ma è anche l’uomo che disegna le divise della squadra. Nel 1992 ha preso il posto del padre Luigi. E qualche tempo dopo lancia la sfida al presidente del Verona Garonzi: “Portemo “el Ceo” a fare il derby col Verona in A”. Con lui il Chievo ha iniziato a scalare le gerarchie del calcio tricolore. Prima la C1. Poi la B. Infine la A. Quando spegne il cellulare comincia a squillare il telefono dell’azienda. La sua segretaria ha avuto l’ordine di dire che Campedelli è occupato, che ha altro da fare che stare attaccato alla cornetta. Non funziona quasi mai. Perché dopo qualche secondo di musichetta il presidente si ritrova a rispondere alle ennesime domande, a raccontare un’altra volta la storia del suo Chievo. Il termine che viene usato più spesso è “miracolo”. Anche se i miracoli difficilmente prevedono l’esborso di miliardi.

L’intera squadra costa meno dello stipendio di Recoba. È benzina per la narrazione. Tutto diventa favola. Tutto viene ammantato di retorica. Gli insegnamenti del padre si tramandano al figlio: “Il pandoro non può mangiare il calcio”, gli ripeteva. Un giro di parole per dire che la priorità erano i bilanci, che era l’economia e non la speranza a dare la misura dei sogni. L’oculatezza non è tirchieria, ma concime per la fioritura delle stagioni successive. Il calciomercato si gioca al ribasso. Si cercano i giovani. O in alternativa i reduci da annate non emozionanti. Gli acquisti non sono seriali. Perché ognuno è una scommessa. Si punta sulla fame, sulla voglia di affermarsi. Più spesso su quella di rivincita, sulla volontà di rimandare la fine. Campedelli ha un’ammirazione per gli eretici, per i bastian contrari. Amava gli schemi offensivi di Alberto Malesani, che l’ha portato in cadetteria. Poi per l’allenatore erano arrivate altre sfide. Serve un nuovo rabdomante del talento, un nuovo mister da travestire da santone. La scommessa è difficile. Il rischio non è bruciarsi, visto che in 20 anni il Chievo ha esonerato un solo allenatore, ma autoesiliarsi nello status quo, in un eterno lombo ai margini del calcio che conta. Alla fine Campedelli sceglie Gigi Delneri. Ultimo domicilio conosciuto: Ternana, in B. Poi è stato fermo per due anni.

L’allenatore era partito dall’Interregionale. E aveva sfiorato anche la A con l’Empoli. Gli era stata affidata la panchina in estate, ma era stato esonerato già nel ritiro. Con il Chievo Delneri diventa profeta. Il suo vangelo è il 4-4-2, il suo miracolo è la moltiplicazione dei punti e delle vittorie. Poi si mette anche a raccontare parabole. La sua erre moscia diventa marchio di fabbrica. Alcune aziende lo invitano a parlare dell’importanza del gioco di squadra. Ogni frase si trasforma in spot, in un appunto sui block notes societari. “Conoscersi a fondo, sviluppare valori comuni e poi faticare”. E ancora: “Ho in mano un capitale umano e devo farlo lavorare al meglio”. Oppure: “Lavoro, lavoro, lavoro. Chi comanda sia credibile”. Piace a tutti. Dirigenti, amministratori delegati, quadri. Anche se i giornalisti continuano a sbagliare la grafia del suo cognome. Lo scrivono staccato. Su tutti i giornali. Su tutti i siti. Lui legge e porge l’altra guancia. Assolve tutti.

Il ritiro estivo che porta alla Serie A è piuttosto austero. L’albergo non ha la palestra. Così sono i giocatori a dover trasportare gli attrezzi. La struttura è condivisa con un gruppo di anziani e con un soggiorno estivo per ragazzini. Il Chievo è ancora un mistero. I tifosi dell’Hellas sono finiti al centro di una vicenda curiosa. Hanno chiesto alla banda di suonare qualche canzone fascista. Solo che i musicisti si sono rifiutati. Così qualcuno ha pensato di risolvere la questione a mani nude. “Con il Chievo non succederà – giura Delneri – Siamo troppo pochi: in casa, porteremo i neonati. In trasferta, non ci andremo. A Torino eravamo 27, eppure è stata la svolta per la promozione. Quando i tifosi vogliono contestare, li porto a bere”. Gli allenamenti sono scanditi dalle sue urla. “Abituiamoci a un’idea: contro di noi gli avversari schiereranno sempre una o due punte in più”. L’allenatore che adora Cuper e Sacchi cura la tattica. Ma anche la testa: “Gli altri hanno tanti numeri 1, noi siamo tutti un numero 0”. Solo che poi corregge il tiro: “Noi siamo il trionfo dell’uomo normale, per questo la gente ci amerà”.

È vero. Il Chievo diventa la squadra del cuore dei non appassionati. Un’entità che fa simpatia a molti. Ma che per alcuni è stucchevole. La prima in Serie A si trasforma in capolavoro. Il 26 agosto gli asini volano al Franchi. Giocano contro la Fiorentina di Mancini. E vincono. Finisce 0-2. Ma è solo il primo atto di una stagione che piega la logica. Il 18 novembre si gioca il derby contro il Verona. E il Chievo ci arriva da prima della classe. L’Hellas vince 3-2. Ma l’orgasmo collettivo è rimandato a fine anno. Stavolta i cugini sprofondano in Serie B mentre gli asini continuano a volare. In alto. Sempre più in alto. Fino al quinto posto in classifica. Vuol dire Europa. Vuol dire trionfo. Solo che la Coppa Uefa è un palcoscenico troppo grande. Il Chievo si blocca, si dimentica le battute. Esce al primo turno. Contro la Stella Rossa. Una delusione che non lava via quello che Delneri ha costruito. Il suo Chievo diventa la filastrocca. Dove c’erano Sarti, Burgnich e Facchetti ora ci sono Lupatelli, il portiere con il 10 sulle spalle, Moro, D’Angelo, D’Anna, Lanna, Luciano, Corini, Perrotta, Manfredini, Corradi e Marazzina. Il Chievo diventa la squadra dove tutto è possibile. Anche vedere Bierhoff vestire il gialloblù. Anche assistere alla crisi di Luciano.

Nell’estate del 2002 l’esterno ha una crisi. E decide di uscire allo scoperto. Dice che il suo vero nome è un altro, che si chiama “Eriberto”. E di essere tre anni più anziano di quanto scritto sulla sua carta d’identità. Il Chievo smette di essere Cenerentola. Non sarà una principessa, ma inizia ad oscillare fra borghesia e classi popolari. Nel 2006 arriva l’altro grande colpo di scena. La giustizia sportiva riscrive la classifica. Per una volta la storia va al contrario Juventus in B. Chievo in Champions League. La Coppa dalle grandi orecchie resta un miraggio lontano. L’Europa diventa terra dei record sottosopra. I veneti vengono eliminati immediatamente. Dalle due competizioni continentali. Dal Levski Sofia in Champions. Dal Braga in Coppa Uefa. L’amarezza diventa incubo a fine anno. I gialloblù chiudono al diciottesimo posto. Significa abisso. Significa Serie B. Sembra una condanna, invece è una parentesi.

Dopo un anno il Chievo è di nuovo in A. Ma ha perso buona parte del suo fascino. Inizia a galleggiare nella parte destra della classifica. Lo smalto dei bei tempi è andato. Il consenso è eroso. Il club affascina ancora. Ma sempre di meno. I tifosi meno appassionati guardano altrove, la squadra comincia a fare sempre meno simpatia. D’altra parte ogni storia ha bisogno di un finale. E non sempre va bene quel “vissero sempre felici e contenti”. Il Chievo non è più la grande novità del calcio italiano. Quella storia ha dato assuefazione. Anche perché si tiene in piedi grazie alle plusvalenze che ne coprono i buchi nella trama. Non ci sono più giornalisti seduti davanti a La Pantalona. Non ci sono più i flash dei fotografi che illuminano il cielo. Sembra di vivere in quella famosa battuta di Ivan Della Mea che dice: “Ho iniziato a dubitare del comunismo quando ho visto che i giapponesi non lo fotografavano”. Anno dopo anno Chievo torna a essere semplicemente Chievo. Un borgo alla periferia della città. E del calcio. L’ultimo posto del 2019 non è solo la fine di una storia lunga 17 anni. È l’inizio della fine. Gli asini non volano più. Rimangono piantati a terra, in Serie B. Almeno fino a giovedì, quando il consiglio federale della Figc ha deciso di escludere il club dalla cadetteria: la rateizzazione dei debiti con il fisco non è in regola. Sono i titoli di coda per un film che ha fatto appassionare una generazione di tifosi. Prima di diventare improvvisamente di nicchia, strozzato anche dai mali endemici del calcio italiano.

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