Ho scritto e riscritto questo attacco almeno quindici volte. Ad ogni tentativo mi devo fermare, cancellare e ricominciare. Sento la voce di Bart che mi prende per il culo e non ci riesco: non riesco a usare parole come dolore o perdita. Figuriamoci morte. Allora forse potrei elencare le gag, il cinismo caustico, le infinite partite di tennis-mano contro il muro, la sfida a chi ha il racconto più strano. Ma pff, dai, perché raccontare quel che si spiega da sé…

Quel che voglio dire dall’inizio è che io oggi ho perso un pezzo per strada.
Un amico, forse immaginario.
Un alter ego.
Uno specchio.

Ho incontrato Libero De Rienzo su un divano sfondato in una altrettanto malmessa casa del centro di Bologna. Condividevo la doppia con la mia amica Simona, il bagno con altre cinque persone. Ero un quasi fuori corso – fuori sede, fuori fuoco – nella Scienze della Comunicazione edificata sul mito di Umberto Eco. Simona, che studiava cinema al Dams, mi disse ‘fidati’ e ci accoccolammo tra coperte e cuscini. Poi fece partire il vhs di Santa Maradona. La prima di milioni di volte.

Niente potè più separarmi da Bart, nemmeno la consapevolezza tardiva di provare amore per un film tutto maschile e in fondo maschilista, basato per tre quarti sulla freschezza dei dialoghi e su una storia d’amore non proprio appassionante e tantomeno edificante. Non l’idealismo cristallino di Fortapasc. Non il Bartolomeo II di Smetto quando voglio, omaggio e in fondo testamento un po’ bolso del Bart che fu: ancora squattrinato e scapestrato dopo tre lustri, certo, ma in fondo troppo marginale e macchiettistico per essere amato con altrettanta intensità.

No. Il mio Libero De Rienzo è Bart. E Bart è l’alter ego che ciascuno di noi ha desiderato, noi che siamo gli Andrea-Stefano Accorsi di quella generazione. Pieni di strutture, di sovrastrutture, di meta-sovrastrutture che in fondo non ci sono servite a molto se non a sentirci un po’ peggio, a chiederci di continuo se siamo felici, a domandarci incessantemente se dobbiamo tornare insieme a Dolores. Se dobbiamo scegliere l’amore o l’orgoglio. Se dobbiamo leggere Guerra e Pace o Novella 2000.

Noi tutti vittime dell’esprit de l’escalier abbiamo sperato che dal suo divano Bart ci desse la frase giusta al momento giusto. Noi terrorizzati da datori di lavoro menefreghisti abbiamo aspettato che ci sistemasse la cravatta. Noi egocentrici frustrati dalla nostra stessa paralizzante consapevolezza abbiamo atteso la sua sfuriata per alzarci dal divano e andare in cerca di una vita.

E lo abbiamo fatto, infine: mentre Bartolomeo Vanzetti restava seduto avvolto nel suo accappatoio, sempre uguale a se stesso, abbiamo accettato che la vita non è come l’avevamo immaginata. Che l’amore non è puro come lo avevamo desiderato. Che il lavoro che abbiamo scelto e cercato con perseveranza non è il portatore di senso di cui avevamo bisogno. Ma abbiamo sopportato tutto questo perché al nostro fianco c’era sempre lui, Bart, a offrirci lo specchio dei nostri vizi e a ridere delle nostre iperboli esistenziali. A sdrammatizzare la nostra pochezza con il suo tenero cinismo.

Nel mio personale pantheon, Libero De Rienzo è vicino al rango dei miti. Ma a differenza di quelli che lo hanno preceduto nella morte – penso a John Belushi, a Kurt Cobain, a Layne Staley – nella sua fine non riesco a trovare niente di epico. Non la fiamma della vita che brucia tutta in una volta, non il fermento di una generazione. Invece vedo i tanti Andrea, i Fabio, le Dolores o come cavolo vi chiamate voi tornare nelle loro case di individui di mezza età e fissare il divano lasciato vuoto. E sentirsi, di colpo, più vecchi e più soli.

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