C’è chi conferma la sua prima impressione, come l’Associazione magistrati: “I processi moriranno ancor prima di nascere”. C’è chi mette la retro e va a tutta velocità, come il più celebre degli avvocati, Franco Coppi, che al Giornale dei Berlusconi aveva detto che la riforma Cartabia “è un groviglio” e che “così i processi vanno in tilt“, ma ora dice che è meritorio che il governo abbia affrontato il problema, perché ci sono “situazioni mostruose” e “il processo stesso è già una pena”. Però perché ha cambiato il giudizio sulla riforma della giustizia non si capisce, perché non entra mai nel merito della riforma. Una specie di abiura che passa da una battuta, sull’ex ministro della Giustizia: “Si è detto che sono passato dalla parte di Bonafede. L’ho fatto per risarcirlo di tutte le cose brutte che ho detto di lui negli anni”. E poi c’è l’ex procuratore, Armando Spataro, che assicura che “il quadro non è così drammatico” e che le reazioni di questi giorni sono state “eccessive” perché – sostiene – “una larghissima maggioranza delle Corti d’Appello italiane riescono a terminare i processi nei tempi previsti”. Parole analoghe a quelle del presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza che parla di “terrorismo comunicativo, mediatico e argomentativo, per cui avverrà un cataclisma perché in due anni non si riuscirà a pronunciare una sentenza d’appello”. No, dice Caiazza, “devono valere i numeri, è un problema che riguarderà un numero ristretto di corti d’appello”. Ecco, appunto: i dati ministeriali dicono che in almeno 10 distretti su 29 i tempi medi dei processi d’appello sono più lunghi da quelli con cui la riforma intende ghigliottinarli senza l’approdo a una sentenza. I distretti più in ritardo, peraltro, non sono esattamente tribunali di periferia: il primo – cioè il più lento – è Napoli dove un processo d’appello può durare oltre 5 anni e mezzo, poi c’è Reggio Calabria (4 anni e mezzo), seguono Catania, Roma e Lecce, che si attestano sui 3 anni e mezzo, e ancora Sassari e Venezia, dove un appello si definisce in quasi tre anni.

Insomma, se perfino a qualcuno dei partiti della mega-maggioranza a sostegno del governo qualche dubbio sulla solidità della riforma della giustizia è venuto – oltre al M5s qualche perplessità è venuta anche a Matteo Salvini -, le audizioni in commissione Giustizia di Montecitorio richieste dalle forze politiche hanno spostato il problema di zero centimetri. Sul “cosa” il tema è chiaro: i processi sono lunghi, non si può stare imputati a vita e però al contrario ci sono presunte vittime che aspettano giustizia (anche loro in fretta, preferibilmente). E’ il “come” che sfugge sempre, ancora una volta, anche nelle audizioni alla Camera. Come accelerare i processi perché abbiamo una sentenza, qualunque sia?

Da qui parte la presa di posizione dell’Anm, con il suo presidente Giuseppe Santalucia che ribadisce come la riforma della giustizia “non accelera ma elimina i processi: impedirebbe di perseguire reati per cui l’allarme sociale è ancora vivo”. Secondo Santalucia la ministra della Giustizia Marta Cartabia “non considera le necessità organizzative degli uffici: ci sono Corti d’Appello che non riuscirebbero a rispettare i tempi, tanto che i processi morirebbero prima ancora di essere fissati. Una cosa è l’indennizzo per irragionevole durata del processo, un’altra cosa è l’eliminazione totale del processo. Anche la previsione derogatoria (di un anno per l’Appello e sei mesi per la Cassazione, ndr) dimentica alcuni reati di assoluta gravità: maltrattamenti in famiglia, stalking, omicidi colposi, tratta di esseri umani, reati per i quali già oggi il legislatore prevede il raddoppio del tempo di prescrizione. Non è possibile – lamenta – pensare che un giudizio di Cassazione, magari dopo una doppia sentenza conforme di condanna, venga a sfumare solo perché si sfora il termine di un anno”. La commissione Lattanzi nominata dalla guardasigilli per studiare il progetto di riforma, ricorda, “suggeriva una tempistica più ampia, tre anni per il giudizio d’Appello e due per la Cassazione, da far decorrere dal momento in cui il fascicolo arriva in Corte d’Appello o in Cassazione (e non, come previsto dal testo, dalla scadenza del termine per impugnare la sentenza del grado precedente, ndr)”.

Casciaro (Anm): “Oltre 150mila procedimenti a rischio” – E anche i correttivi che il governo ora propone sottoforma di emendamenti, aggiunge il segretario generale dell’Associazione Magistrati, Salvatore Casciaro, “non hanno raggiunto l’equilibrio” tra l’esigenza di evitare troppe prescrizioni e quella di non lasciare gli imputati sotto processo a vita. La legge “si risolverà in un forte incentivo a impugnazioni pretestuose, con ulteriore penalizzazione dei tempi di definizione” dei giudizi. “Fissare tempi tanto stringenti, anche in distretti con carichi non gestibili in tali tempi, significa anche togliere serenità al giudice nel lavoro quotidiano, e questo è un rischio da evitare assolutamente”, spiega: la tagliola di due anni per l’Appello e uno per la Cassazione è “un’imposizione calata dall’alto, fuori dal principio di realtà. Non vorrei – argomenta – che un giudice si sentisse stretto tra l’obbligo di rispettare i tempi, pena l’amputazione dell’intero processo, e il dovere di esercizio delle funzioni giudiziarie nei tempi loro propri e adeguati e nel rispetto delle garanzie. Secondo le prime stime effettuate – conclude – sono oltre 150mila i procedimenti che non rispetterebbero questa tempistica, in particolare nei distretti di Corte d’Appello di Roma e Napoli, la cui sofferenza in termini organizzativi ben conosciamo”.

Dopo Santalucia e Coppi, nel pomeriggio, è stato il turno dell’ordinario dell’università di Bologna Vittorio Manes (audito su richiesta del deputato di Azione Enrico Costa), dell’ex procuratore di Torino Armando Spataro (da richiesta del Pd), dell’ex sottosegretario Alfredo Mantovano e del presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza (in “quota” Italia Viva). Il Movimento 5 Stelle, che esprime il presidente della commissione Mario Perantoni, ha ottenuto di ascoltare alcune delle voci più critiche nei confronti del testo: nei prossimi giorni interverranno il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho.

Coppi: “Riforma è una dolorosa necessità” – Il riposizionamento di Coppi rispetto a una recente intervista in cui sembrava piuttosto critico nei confronti della riforma, passa dalla definizione che dà della riforma Cartabia: “Una dolorosa necessità“, anche se non nega “rischi e difetti”. “Il meglio – spiega – sarebbe che i processi potessero durare un tempo ragionevole senza bisogno della tagliola“, ma in Italia “ci sono situazioni mostruose, processi che possono durare anche trent’anni. Di recente ho discusso un ricorso in Cassazione per un omicidio del 1986″. La lungaggine della giustizia, ha insistito, “è un problema terrificante, anche perché il processo stesso è già una pena. Il problema va affrontato e il fatto stesso di averlo messo sul tappeto è un titolo di merito che va riconosciuto al Governo. È importante che la questione sia stata colta e le sia stato dedicato tempo”. L’improcedibilità in Appello e in Cassazione, per Coppi, “è una soluzione che merita di essere studiata e approfondita, anche se possono già essere intravisti rischi e difetti. La cosa importante, però, è che il problema sia stato discusso. Abbiamo evitato una follia dal punto di vista giuridico, cioè il fatto che il processo potesse non avere mai termine. È impensabile che un soggetto assolto debba aspettare 3, 4 o 5 anni per vedere riconfermata la sua assoluzione, o addirittura, se dovessimo seguire la linea di Bonafede, attendere per sempre“. La giravolta è completa quando si parla della riforma Bonafede che oggi il professore definisce “una follia”. Al Giornale aveva commentato in modo opposto in relazione al “groviglio” prodotto dalla riforma Cartabia: “A questo punto sarebbe stato meglio tenersi la riforma Bonafede e buonanotte. Se non altro aveva il pregio della chiarezza”. Oggi però non vale più

Spataro: “Reazioni eccessive, il quadro non è così drammatico” – Il giudizio sul testo del governo è positivo anche per l’ex procuratore capo di Torino Armando Spataro. “Non possiamo dimenticare che c’è un diritto dell’imputato, tutelato dalla Costituzione, alla ragionevole durata del processo, anche se forse il tema non esisteva in occasione di vecchi progetti di oltre dieci anni fa“, dice, in riferimento al ddl berlusconiano sul “processo breve” che ricorda da vicino la riforma. “La durata del processo dev’essere nota e prevedibile, piaccia o non piaccia. A fronte di questa necessità, reagire come fanno alcuni magistrati in termini aggressivi ed eccessivi non mi pare corretto. Il quadro non è così drammatico da pensare che i termini siano destinati a far morire tutti i processi, e in particolare non quelli importanti“, sostiene, perché “una larghissima maggioranza delle Corti d’Appello italiane riescono a terminare i processi nei tempi previsti. Altre no, e allora vediamo di far fronte alle problematiche che impediscono a tutti di farcela“. Le soluzioni, secondo Spataro, “sono anche negli emendamenti del Governo, ma nessuno li prende in considerazione: è importante che sia stata introdotta l’inappellabilità per alcuni reati minori, l’inammissibilità degli appelli per mancanza di specifiche motivazioni e ampliata la non punibilità per fatti di lieve entità”.

Il presidente dell’Unione Camere Penali, Giandomenico Caiazza, se la prende con il “terrorismo comunicativo, mediatico e argomentativo, per cui avverrà un cataclisma perché in due anni non si riuscirà a pronunciare una sentenza d’appello. Devono valere i numeri, è un problema che riguarderà un numero ristretto di corti d’appello”. Per Caiazza è sufficiente intervenire “strutturalmente su quelle corti d’appello perché la gran parte sono tranquillamente dentro quei termini. E’ un problema di priorità. Se di fronte a un ufficio pubblico che non funziona si accetta l’idea che un cittadino debba rimanere prigioniero del suo processo o invece ci si attiva perché l’ufficio funzioni. Questa è la partita in gioco in un contesto in cui in questo Paese non si prescrive quasi più nulla”. Come sanno bene per esempio le parti civili della strage di Viareggio o del processo Eternit. Per il presidente delle Camere penali è “un dibattito surreale di puro posizionamento politico e di pure bandierine che vanno piazzate su questo tema. C’è una comunicazione drogata. E’ un dibattito totalmente scollegato dalla realtà”. “Basta – insiste – con il terrorismo che mette all’ultima fila il diritto fondamentale del cittadino a conoscere la sua sorte in un processo penale entro un tempo predeterminato e ragionevole, o lo Stato deve rinunciare alla sua potestà punitiva. Non c’entrano i privilegi, o la casta o gli avvocati ricchi“.

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