C’era una volta la favola dell’“eccellenza sanitaria della Lombardia”, capace di oscurare quella di tutte le altre regioni. C’era una volta perché, finalmente, è a disposizione un libro, scritto con rigore scientifico: in quasi 600 pagine fornisce tutti i documenti e i dati utili per sfatare quel mito. Lo firma Maria Elisa Sartor, professoressa a contratto nel Dipartimento di Scienze cliniche e di comunità dell’Università degli Studi di Milano e docente di Programmazione, organizzazione e controllo nelle aziende sanitarie. Si intitola La privatizzazione della sanità lombarda dal 1995 al Covid-19. Un’analisi critica, disponibile su Amazon. Uno strumento indispensabile per politici, amministratori pubblici, ricercatori, medici, economisti, studenti di Medicina e molto utile per i cittadini che vogliono capire.
Però, anche volendo sorvolare sul periodo straordinario segnato dal Covid, la sanità regionale lombarda, con le infrastrutture private ormai maggioritarie rispetto a quelle pubbliche – e sostenute con soldi provenienti dalle tasse – è davvero un esempio? Sta dando risultati sul fronte dell’efficienza? Al di là della grande qualità di singole strutture sanitarie pubbliche e private, i risultati sono soddisfacenti sul piano della prevenzione, dell’epidemiologia, dell’igiene pubblica, dei servizi di base? Sono giustificati l’enorme spazio di manovra e i copiosi finanziamenti che il governo regionale ha dato e dà alla sanità privata?
La risposta è “no”. Lo testimonia la classifica delle Regioni italiane in base ai Lea (livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario è tenuto a fornire a tutti i cittadini con le risorse pubbliche): la Lombardia, dal 2012 in poi, riporta – secondo la Direzione generale della programmazione sanitaria del Ministero della Salute – un punteggio che la colloca per lo più al quinto posto. La risposta è “no” anche perché il modello della privatizzazione della sanità si sta mostrando inefficiente dal punto di vista dei cittadini e del loro diritto alla salute, nonostante la cessione di spazi ai privati sia perseguita tuttora dalla Giunta Fontana. I cittadini per lo più non se ne rendono conto, ipnotizzati dal mantra dell’eccellenza; solo il caos accaduto durante l’emergenza sanitaria ha squarciato il velo.
Di fatto comunque, come emerge dal libro, l’infrastruttura pubblica del sistema, quella che dovrebbe garantire la capacità di programmazione, è stata destrutturata, se non distrutta. La professoressa Sartor fornisce le prove documentali in grado di dimostrarlo: si tratta delle scelte politico-amministrative – dai grandi piani alle singole delibere – che la Regione ha adottato dal 1995 in poi. L’autrice le ha messe in fila cronologicamente e analizzate. Riesce così a dimostrare che nulla è accaduto e sta accadendo per caso. Semmai ci sono state tattiche e strategie ben studiate per arrivare a un sistema regolativo – quello lombardo – che sbilancia e scardina il modello originario del Servizio sanitario nazionale (SSN).
È successo a cominciare dagli interventi di depotenziamento della “sfera del pubblico”. Come? Col dimezzamento delle ricettività degli ospedali pubblici (ormai minoritari in quasi tutte le province, a favore di quelli privati) e il graduale smantellamento del resto dell’infrastruttura sanitaria territoriale; con le risorse finanziarie razionate e quelle tecnologiche non manutenute e non rinnovate adeguatamente; con il mancato ripristino del turn-over e i tagli al personale; con i vertici del Sistema sanitario regionale (SSR) – politici e non – “migranti” verso il privato; con la “sorveglianza” politica su chi resta. Fino al controllo dell’informazione – in uscita dalla Regione e in entrata sui media – per coprire il depotenziamento del pubblico: come scrive Sartor, “un buon numero di giornali italiani è controllato… dai maggiori gruppi economici della sanità e, indirettamente, dalle associazioni degli imprenditori interessati al settore”.
Dal libro emerge che, in sintonia con scelte politiche e amministrative, “i gruppi della sanità privata presenti in regione hanno deciso… sulla base delle loro strategie di posizionamento strategico all’interno del quasi-mercato della sanità… di differenziare la propria gamma di servizi posti a contratto con il SSR”. Come? “Passando dai servizi di ricovero e cura a ogni altra tipologia di servizi territoriali, oculatamente scelti sulla base della possibilità di estensione vantaggiosa per il business (centri salute, centri diagnostici, centri di prelievo, poliambulatori, smart clinic, ambulatori di medicina sportiva, consultori, cliniche odontoiatriche, centri di salute mentale residenziali, semi residenziali e diurni, centri di Medicina del lavoro). I servizi territoriali erogati da soggetti pubblici quindi sono arretrati sempre più sullo sfondo per far sì che si moltiplicassero le sedi dei servizi extra-ospedalieri della sanità privata”. Si lascia che persino le facoltà di Medicina nelle università private, fondate dai soliti gruppi imprenditoriali, erodano il terreno di quelle statali.
L’analisi della professoressa ovviamente non è il Vangelo; anzi, vuole favorire la discussione. Però senza dubbio mette in fila tutti gli indizi che portano a una conclusione: gli interessi del business sanitario privato sono spacciati per gli interessi dei cittadini; la mortificazione della sanità di base – quella mortificazione che ha contribuito al boom pandemico in Lombardia – è nascosta dal luccichio della presunta “eccellenza” in aree specialistiche.
Qualcuno magari vorrà ribadire, in Regione e in qualche consiglio di amministrazione, che va tutto bene. Se non fosse che il disastro della pandemia è lì a dimostrare che – come non si possono sostituire i servizi pubblici di trasporto con poche Ferrari messe a disposizione dal “filantropo” di turno – così l’infrastruttura della sanità pubblica non può essere sostituita da quella privata; né le istituzioni, Regione in testa, possono rinunciare, in nome della liberalizzazione, al loro ruolo di programmazione e coordinamento.