di Ludovica Lopetti
Qualche settimana fa sul Fatto Quotidiano in edicola, Virginia Della Sala si occupava delle polemiche nate attorno alla hit “Mille”, che in queste settimane ha fatto il pieno di ascolti e visualizzazioni. Sintetizzo: chi ha messo su l’operazione si è servito di un vuoto nella normativa italiana sulla pubblicità, che impone di segnalare l’inserimento di prodotti commerciali soltanto se il marchio compare in un video, non se viene menzionato più volte nel testo di una canzone.
Sappiamo che le aziende hanno al loro interno appositi reparti incaricati di monitorare le preferenze dei consumatori e che attorno a questa mutevole geografia sviluppano prodotti e strategie pubblicitarie. Perciò nessuno più dei marchi ha interesse a intercettare le tendenze e a incorporarle nei propri prodotti, esasperandole quel tanto che basta.
Sappiamo, per esempio, che il nostro corpo fa gola ai brand di abbigliamento e di cosmetici, i quali da tempo ci hanno persuaso a cedere una parte di “sovranità” su di esso: non ci scandalizza la quantità di prodotti per la cura del corpo che ci vengono ammanniti con la scusa (e l’ingiunzione) di renderlo più morbido, più lucido, più liscio, più tonico, in altre parole di trasformarlo. Dare una chance al prodotto e al bisogno che si propone di soddisfare si risolve in una scelta di consumo nuda e cruda. Compreremo il cosmetico in questione e mal che vada lo butteremo nell’immondizia: piangerà il portafoglio, non noi.
Nel passato anche i luoghi della pubblicità erano ben delimitati: c’erano le affissioni, le pagine dei giornali e delle riviste, gli spot e, con l’avvento di internet, i banner. “[…] è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro”, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1973, commentando sul Corriere il folle slogan dei jeans Jesus (Analisi linguistica di uno slogan, in Scritti corsari, Garzanti).
In un discorso che non si accontenta più soltanto di suscitare bisogni per soddisfarli previo pagamento, ma di assicurarsi la loro riproduzione eliminando tutte le possibili resistenze, quest’affermazione andrebbe ribaltata. Infatti troviamo sempre più spesso la pubblicità annidata in “contenitori” che non presentano le insegne della pubblicità, come per esempio articoli e video di taglio motivazionale o divulgativo. Per raggiungere lo scopo, la “leva psicologica” in questi casi si spinge ben oltre il generico invito a servirsi del prodotto per migliorare la propria vita. Nei casi più riusciti, il prodotto riesce a mimetizzarsi completamente dietro un’idea. Lo fa attraverso l’uso disinvolto di un lessico psicologico à la carte, coniando espressioni molto specifiche che “parcellizzano” e codificano il campo delle esperienze o scomodando statistiche, sondaggi e analisi socio-antropologiche.
Ho avuto la netta sensazione, leggendo alcuni di questi articoli, che in nome dell‘inclusione (che in questi casi è prima di tutto inclusione nella platea dei consumatori) venissero normalizzate, o peggio “glamourizzate”, condizioni di sofferenza (o di protezione da essa) che non solo meriterebbero indagini più complesse, ma prim’ancora di essere affrontate senza secondi fini commerciali o di marketing.
Il problema a mio avviso diventa tanto più evidente da un lato quando il campo si allarga ai beni immateriali, dall’altro quando accanto a contenuti dichiaratamente brandizzati ne incontriamo altri dello stesso tenore, ma senza l’apposito avvertimento. Può capitare infatti di imbattersi a stretto giro in un articolo che pubblicizza “in chiaro” un conto corrente e in un contenuto analogo che c’invita a “migliorare il nostro rapporto con il denaro” e a “pianificare le entrate”. Lo stesso accade con un’app di dating, sennonché il rapporto con il denaro è regolato dalle sue proprietà di “feticcio”, mentre l’intimità e la relazione con l’altro rispondono a leggi diverse e più incerte, il che le rende estremamente esposte e vulnerabili alle intrusioni.
Che questi contenuti “ibridi” facciano parte di una strategia o meno, in qualità di lettori e – nostro malgrado – consumatori abbiamo diritto a sapere quando siamo messi di fronte a una pubblicità e quando a un contenuto informativo. Del resto quest’ambiguità è resa possibile dal confine sempre più poroso tra giornalismo e blogging, comunicazione, informazione e divulgazione: lo dimostra il boom di media company che dominano l’informazione/divulgazione su Instagram e poggiano la loro sopravvivenza materiale su contenuti sponsorizzati e pubblicità per conto terzi.
Perché nessuno denuncia il conflitto d’interessi strutturale che sta alla base di questo (nuovo?) modo di fare profitto? Una delle ragioni potrebbe essere che il fenomeno viene percepito come ancora troppo “virtuale”. L’altra è (a mio avviso) che questa new wave del marketing nasce apposta per far fare confusione, per provocare una guerra delle idee che riesca ad annullare le differenze tra il prodotto e l’opinione di cui esso si serve per fare breccia, proprio come in un rapporto parassitario.
Se l’espressione dovesse sembrare troppo forte, non si potrebbe comunque negare che sussista una questione di opportunità. Queste piattaforme infatti godono di un credito uguale e talvolta anche maggiore di quello riservato ai giornali, che però in fatto di pubblicità rispondono anche a norme deontologiche (almeno chi li fa, cioè i giornalisti). Le testate tradizionali guardano ancora con pudore ai contenuti brandizzati (se non nella forma pre-pubblicitaria della marchetta) proprio per scongiurare contraccolpi in termini di reputazione e affidabilità presso il pubblico.
Chi mi garantisce che per ogni contenuto a scopo dichiaratamente commerciale non ne vengano prodotti altri in cui l’intento pubblicitario è nascosto tra le pieghe di un articolo apparentemente disinteressato? Siamo sicuri che basti una formula come “partnership sponsorizzata” per assicurare il rispetto delle norme e non tradirne lo scopo? E siamo sicuri che la formula “media company” – una fenice che occupa comodamente la zona grigia molto remunerativa tra informazione e pubblicità – non sia semplicemente un modo furbo per soggiacere all’uno o all’altro codice a seconda della convenienza?