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Vincenzo Santopadre, il coach di Matteo Berrettini a FqMagazine: “Se vuoi essere un campione nel tennis, vai al ristorante e mettiti alla prova”

La pensa così Vincenzo Santopadre, coach del campione di tennis Matteo Berrettini, fresco di finale a Wimbledon

di Ennio Battista

“Se vuoi aspirare a essere un campione nel tennis, vai al ristorante e mettiti alla prova, se diventi nervoso perché ti stanno facendo aspettare per servirti, lascia perdere ogni velleità e mettiti a fare altro”. La pensa così Vincenzo Santopadre, coach del campione di tennis Matteo Berrettini, fresco di finale a Wimbledon. Il test di Santopadre calza a pennello, visto che una ricerca inglese ha messo in evidenza che iniziamo a perdere la pazienza al ristorante dopo appena otto minuti di attesa.

Santopadre, il suo è un invito alla pazienza, ma anche all’educazione.
“Proprio così. Siamo abituati ad avere tutto e subito. E a pretenderlo con poca fatica, con un click a portata di mano. Nello sport – ma non solo – bisogna invece imparare a seminare nel tempo e a sapere aspettare, in maniera attiva, anche se magari non si raccoglie il frutto sperato. Perché la bellezza di un risultato sta più nel percorso che abbiamo vissuto per raggiungerlo. Insomma, sei un campione se rispetti certi valori”.

E in che misura c’entra l’essere educati?
“La mentalità di un vero atleta si forma nel rispetto dell’altro professionista. Come dovresti rispettare il cameriere”.

Torniamo alla metafora del ristorante…
“Mi spiego meglio. Forse stai aspettando più del solito perché probabilmente il cameriere sta servendo qualcuno arrivato prima di te; o magari ci sono i cuochi alle prese con i tanti imprevisti in cucina. Il tennis è uno sport individualistico che rischia di farti concentrare solo su te stesso e perdere una certa visione di insieme, come la considerazione del lavoro degli altri. Bisogna invece accettare di fare parte di un processo in cui niente ti è dovuto o è dato per scontato”.

A volte si tende ad associare il campione alla genialità, a qualcosa cioè di innato, sottovalutando l’importanza di lavorare su se stessi per crescere.
“Mi batto molto per una certa cultura sportiva, a volte latitante. Ed è proprio la parola ‘talento’ a generare più confusione”.

In che senso?
“Per esempio, di Federer si dice che ha un talento innato. Ma per diventare il campione che è non è bastato sentirsi predestinato. Anche lui ha dovuto percorrere una strada fatta di allenamenti pesanti, impegno, sviluppo della forza di volontà. Si può diventare un grande atleta senza avere capacità geniali innate”.

Come Matteo Berrettini.
“Sì, all’inizio nessuno avrebbe puntato su di lui, perché spesso ci incantano qualità apparenti. Ma Matteo ha un talento invisibile, crede nella cultura del lavoro, nella resilienza e nella fatica. Molti ragazzi naturalmente dotati si perdono per strada facilmente perché non hanno questa mentalità”.

Diventare un bravo atleta significa anche saper perdere. In che modo si impara dalle sconfitte?
“Matteo rappresenta un esempio di chi si forma dalla sconfitta. Non mi riferisco solo alle delusioni provate al rientro dall’infortunio a Montecarlo nella partita contro Davidovich Fokina; o alla sonora batosta patita da Federer due anni fa e che ancora oggi lui ricorda, per assurdo, con piacere. La chiave per migliorarsi è nell’interpretazione che si da a questi eventi, accogliendo il fallimento come parte di un percorso di crescita”.

Non pensa che la polemica che si è scatenata per il comportamento della nazionale inglese durante la premiazione alla finale europea è anche figlia di una cultura che, a differenza del tennis, non coltiva il rispetto per i vincitori?
“Credo che queste cose partano da lontano, da come ti hanno aiutato a interpretare la sconfitta. Se per esempio non hai imparato ad accettare che puoi dare il cento per cento ma non sempre puoi raggiungere un risultato positivo. Gli inglesi erano convintissimi di vincere; addirittura, si dice che alcuni tifosi avessero fatto una petizione per avere un giorno di ferie al lavoro e festeggiare il titolo europeo. C’era un clima attorno alla nazionale inglese di grande sicurezza. E questo penso abbia favorito una reazione che io non considero sportiva. Se fossi stato un tifoso inglese non me ne sarei andato via prima della premiazione, sarei rimasto allo stadio, avrei ringraziato e applaudito i miei giocatori e reso omaggio a chi era stato più forte. Non voglio condannarli né giudicarli, lo dico valutando le cose dall’esterno. Nel tennis, per contro, esiste un galateo che ti aiuta nel tempo a interiorizzare certi valori – non solo in senso formale – anche se inizialmente non ti appartengono”.

In che modo Berrettini può promuovere un’idea di tennis “vincente”?
“Principalmente restando se stesso. Perché presenta un volto pulito, ha la capacità di essere un grande lottatore in campo, non mollando mai. E lo fa con una lealtà sportività che – cosa non da poco – gli viene riconosciuta anche dai suoi colleghi. Certo, gli può capitare di vivere episodi di insofferenza o nervosismo. Ma Matteo non deve sforzarsi di essere un buon esempio. Lui è così”.

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