Pochi giorni fa sono entrata in un bar per bermi un caffè al volo, una cosa che per chi come me vive da decenni all’estero è quasi magica perché mi riporta alla mia giovinezza; perché è velocissima, una sosta tanto breve quanto quella al semaforo rosso; perché in Italia l’espresso è buono in tutti i bar e quindi non si sbaglia mai; insomma, per me il caffè al volo, al bancone, è quasi un rito sacro.

Dicevo, sono entrata al bar e sulla soglia mentre mi disinfettavo le mani mi sono chiesta come mi sarei sentita se avessi dovuto fare la fila per il controllo del green pass. E mi sono vista in coda nella stazione Termini o in quella di Milano (dove c’è una pasticceria siciliana che fa un espresso eccellente e dove mi fermo sempre per una tazzina), con i treni che arrivano e partono sullo sfondo e la gente davanti a me che smaneggia con il cellulare.

Sembra stupido, quasi irriverente, introdurre nel dibattito sul green pass il piacere di una tazza di caffè al volo, ma non lo è. L’espresso al bancone è il simbolo di un’Italia in movimento, un paese attivo, dove esiste una crescita economica, dove la gente va veloce perché produce, un paese moderno, dinamico. L’idea che all’ingresso dei bar ci sia qualcuno che verifica il green pass – perché parliamoci chiaro: pensare che questa funzione verrà svolta efficientemente da una macchina è pura fantasia – a me sembra un rallentamento esistenziale. Perché? Perché durante la giornata il bar per noi è innanzitutto un luogo di passaggio, non è come nel nord Europa una sala da tè dove sedersi, né uno Starbucks dove bisogna aspettare in fila per avere un caffè “designer”. Certo al bar da noi la sera c’è l’aperitivo, ma di quello già si è parlato a lungo.

Altro pensiero che mi è venuto in mente mentre mi avvicinavo al bancone del bar pregustando il mio caffè al volo è stata la natura strettamente europea del green pass. Io vivo a Londra e quindi sono stata vaccinata lì, il green pass non ce l’ho, ho però un’app della National Health, il servizio sanitario, dove c’è scritta tutta la mia storia sanitaria, quante volte sono andata dal medico e perché, che medicine ho preso, che malattie ho avuto; in fondo, in fondo ci sono i dati del vaccino, con tanto di codice a mosaico, come nel green pass. Ma la domanda che mi sono posta è la seguente: il sistema europeo può leggere quello britannico? Nessuno lo sa.

Fuori dai confini dell’Europetta unita – perché ormai questo sembra essere diventata, un’istituzione che invece di allargare restringe gli orizzonti – esistono diversi sistemi di verifica dei vaccini, applicazioni che funzionano solo dove sono state prodotte. Non sarebbe meglio farne una globale che possa essere letta dovunque? Ma se questo accadesse, mi verrebbe da pensare, allora ogni nazione potrebbe leggere i miei dati e volendo anche usarli. Non illudetevi che ciò non avvenga, il passaporto vaccinale è una porta sulla storia sanitaria di ognuno di noi.

Mentre bevevo il caffè ho riflettuto che più che un rito sacro, di cui godo quando sono in Italia, il caffè al volo sta per diventare un’espressione di libertà che presto perderò. Assurdo? Non direi, e vediamo perché. Restringere la libertà di movimento a chi non ha il green pass è un modo soft di imporre l’obbligo di vaccinarsi. La giustificazione: il vaccino salva le vite e quindi è positivo per la nostra salute. Ma stiamo attenti, questa verità nasce dalla responsabilità dello Stato di proteggere i suoi cittadini dall’epidemia, non dall’assunto che lo Stato sa meglio di noi stessi ciò che ci fa bene e ciò di cui abbiamo bisogno. Se così fosse allora chi impedirebbe a questo Stato di fare altre scelte in nome nostro; ad esempio, abolire il diritto di abortire?

A differenza di molti non mi esprimo sui vaccini, rispetto le decisioni altrui e non penso affatto che un codice a mosaico su un cellulare sia sufficiente per proteggermi dal Covid. Per non essere contagiata seguo i sani principi applicati al sesso di quando ero giovane: mi proteggo da sola, ergo spesso uso doppie mascherine, evito i luoghi affollati, mi lavo le mani sempre e non dipendo dalla protezione altrui. Se tutti lo facessimo ci sarebbe molto meno pericolo.

Ultima riflessione: la paura del contagio non deve intaccare le nostre libertà: prima o poi il virus se ne andrà, diverrà debole e non ci ucciderà più, ma i maggiori poteri dello Stato rimarranno. È già successo.

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