Mano sinistra e otto costole rotte in diversi punti, lividi e botte ovunque, ferite e un emorragia interna che l’ha quasi ucciso. Il pestaggio della polizia nei confronti del giornalista Mark Covell la notte della “macelleria messicana”, il 21 luglio 2001, nella scuola Diaz, al g8 di Genova, l’ha mandato in coma per 13 ore, convincendo molti che sarebbe stato lui il secondo ragazzo ucciso dalle forze dell’ordine nei giorni del vertice mondiale e delle manifestazioni altermondialiste che riempivano le strade della città.
Al risveglio dal coma Covell si è trovato accusato di essere un black bloc: “Non c’era nessuna prova neanche lontanamente plausibile, ma l’hanno usato come debole alibi per ‘minimizzare’ agli occhi dei media le modalità brutali di un raid condotto contro i più elementari diritti umani – ricorda Mark Covell, di ritorno a Genova per il ventennale di quei giorni – Oggi molti dei dirigenti di polizia responsabile di quell’operazione, come delle torture nei confronti degli arrestati avvenute nella caserma di Bolzaneto, sono stati promossi nella scala gerarchica o gli sono stati riconosciuti ruoli di prestigio. Ho molto pensato a questo fatto, per me può significare solo una cosa: sono stati premiati perché hanno eseguito alla perfezione gli ordini di chi gli aveva dato mandato di massacrarci correndo il rischio di ucciderci”.
A venti anni di distanza le richieste del giornalista inglese sono sempre le stesse: “Nel mio Paese una cosa del genere non sarebbe possibile, l’Italia dovrebbe dotarsi di una legge adeguata contro la tortura, adeguandosi alle leggi europee, rendere identificabili i poliziotti con un codice sul casco o con altri metodi efficaci, dotarsi di un’organo terzo che indaghi sugli abusi di potere, riaprire il processo per fare piena giustizia sui pestaggi e le torture di quei giorni in cui, a Genova, sono stati sospesi i diritti umani e la democrazia”.