Nelle ultime settimane il governo ha varato i primi atti che dovrebbero guidare la ripresa post-pandemia, contemporaneamente stanno prendendo forma i provvedimenti inerenti l’utilizzo delle somme che arriveranno dall’Europa già a partire dai prossimi mesi.
Purtroppo, il quadro che emerge è tutt’altro che tranquillizzante: a fronte dell’esigenza di plasmare una politica industriale e di contrasto alle disuguaglianze, necessaria ad assicurare una duratura e solida crescita economica, oltre che garantire la giustizia sociale, pare che si stia andando verso l’ennesimo assalto alla diligenza mascherato da una concezione della società e dell’economia di stampo liberista, ma non certo liberale.
I tentativi di aggirare i controlli sugli appalti, spacciandoli per semplificazioni normative, di reintrodurre il massimo ribasso, così come la liberalizzazione dei subappalti sono segnali negativi, a prescindere dal loro esito.
Se a questo aggiungiamo che si stanno facendo passare, tra gli scarsi investimenti di natura culturale, opere come la ristrutturazione dello stadio “Artemio Franchi” di Firenze, è chiaro il tentativo delle lobby più varie di accaparrarsi i fondi europei senza tener conto che molti di essi sono prestiti che andranno restituiti. Sarebbe quindi fondamentale concentrarsi sulla spesa buona, come ha scritto Enrico D’Elia su lavoce.info, un concetto che però non sembra interessare più di tanto il governo.
In Italia liberismo fa rima con capitalismo di relazione, un sistema che accentua le distorsioni del mercato e serve solo ad aumentare le disuguaglianze, anziché a generare crescita sana.
Lasciare il governo delle politiche economiche a un mercato che penalizza il lavoro mira a ridurre le tutele dei lavoratori e i controlli e orienta le spese non dove serve al Paese, ma ad alcune categorie di “prenditori”. Con la scusa della libertà di impresa si rischia di produrre conflitto sociale, uno dei fattori che maggiormente impediscono il pieno dispiegamento della potenzialità economica.
Gli aiuti a pioggia dell’ultimo decreto ristori e la nomina di una task force di economisti di spiccata estrazione liberista per gestire i fondi del Pnrr vanno tutti in questa direzione sbagliata. E, per finire, la sospensione del “cashback”, discutibile quanto si vuole, ma che ha fatto emergere pezzi di economia in nero, sembra la pietra tombale sulle speranze di cambiamento.
I fattori che però ci preoccupano di più sono due: i tentativi di “green washing” mascherati da transizione ecologica e il mancato potenziamento della macchina pubblica, che dovrebbe assicurare un più celere uso dei fondi.
Dare fondi ad imprese energivore, che tutto sono meno che green, o addirittura riportare in auge il nucleare, sonoramente bocciato dai cittadini con la consultazione referendaria del 2011, non ci pare un fulgido esempio di transizione ecologica. Stessa cosa per l’acqua pubblica: nonostante la stessa tornata referendaria abbia sancito la pubblicità dell’acqua il Pnrr ha perso un’occasione per una nuova politica sui beni comuni, confermando la governance di fatto privata sul bene pubblico per eccellenza.
Anche sulla pubblica amministrazione non si sono fatti passi avanti: doveva essere l’atout per migliorare l’efficacia nell’uso dei fondi europei e rilanciare l’economia e invece, a parte il flop del concorso per il Sud, si sta facendo poco o nulla, e quel poco lo si sta facendo senza introdurre elementi di maggiore managerialità ma solo attraverso nuove norme, più dannose che inutili.
Il ministro Brunetta è ancora in tempo per dare mandato all’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (Aran) a trattare un contratto davvero innovativo. Così come speriamo che il governo abbandoni l’idea di svuotare l’Anac per appropriarsi dei poteri di controllo anticorruzione. È necessario ripartire dal lavoro e dai cittadini, dagli investimenti in formazione, ricerca di base, politica industriale, funzionamento della P.A. Lo status quo, il capitalismo di relazione, l’iper-liberismo non risolvono i problemi strutturali della nostra economia e condannerebbero l’Italia alla marginalità sul piano economico e all’ingiustizia sul piano sociale.