“Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” così nelle motivazione del Borsellino Quater, depositate dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel giugno del 2018. Guai ad abituarsi a queste parole, perché quanto è accaduto tra il 1992 ed il 1993 non ha smesso di produrre i propri effetti, non è passato, ma è parte del nostro presente.

L’attività investigativa e giudiziaria ha prodotto molti risultati positivi e sono certo che ancora ne produrrà, pur dovendo restare nei rigorosi paletti della propria funzione, ma l’accertamento delle responsabilità penali che sono personali, non esaurisce il campo del giudizio che possiamo formulare su quella stagione e sul significato di quei fatti.

Che la mafia fosse parte dello Stato, con tutto ciò che questo abbia potuto e possa comportare, prima delle indagini sulla strage di Via d’Amelio, lo aveva detto, sconvolto, lo stesso Paolo Borsellino sia a sua moglie Agnese che a due giovani colleghi. Che la mafia ed in particolare Cosa Nostra in Sicilia fosse stata una delle componenti funzionali al mantenimento dell’Ordine Pubblico dal Secondo dopo guerra lo sapevano bene sia Falcone che Borsellino e sapevano entrambi di quali intrecci fosse capace, tanto andando nella direzione della eversione di estrema destra, quanto in quella di certa massoneria, quanto in quella di certa imprenditoria italiana (anche quotata in borsa!). La Repubblica italiana insomma era sì una democrazia fondata sul lavoro, ma anche sul potere di intimidazione delle consorterie mafiose e – come ha più volte stigmatizzato il professor Sales – era una democrazia che non aveva risolto uno dei nodi costituivi di uno Stato: l’uso monopolistico della forza.

Chi meglio di Falcone e Borsellino poteva sapere tutto questo, avendo per anni seguito con determinazione e competenza questi fili che portavano nelle stanze più alte del potere italiano?

E’ per tanto un tema potente e commovente quello della straordinaria lealtà dimostrata in particolare da Borsellino nei giorni che vanno dalla strage di Capaci al 19 luglio: una lealtà al quadrato, lealtà all’amico di una vita, Falcone, e lealtà alle istituzioni democratiche. La prima gli impose di non risparmiarsi in quei giorni, pur sapendo di essere il prossimo nella lista. La seconda lo indusse a farlo senza mai cercare scorciatoie al di fuori del rigore imposto dal suo ruolo.

Impossibile anche soltanto immaginare quanto gli sia costata in vita questa lealtà al quadrato.

Ma c’è poi un secondo tema, che riguarda tutti noi ancora oggi e che va al di là della pure necessaria opera di chiarificazione in sede penale delle condotte legate a quei fatti: c’è qualcosa che ci autorizzi a pensare che oggi in Italia l’Ordine pubblico (con tutti gli addentellati del caso: carriere politiche, fortune economiche…) non si avvalga ancora di quelle “convergenze”?

Non basta rispondere che la Cosa Nostra dei Corleonesi è stata quasi completamente travolta dalla reazione dello Stato dopo il ’92. Non basta rispondere che, soprattutto negli ultimi dieci anni, anche la più potente, internazionalizzata e militarizzata delle altre organizzazioni mafiose, la ‘ndrangheta, è stata colpita duramente dai processi, alcuni dei quali attualmente in corso.

Non basta per almeno due ordini di motivi.

Nessun vertice istituzionale italiano, presente o passato, ha mai sentito il bisogno di confessare apertamente questo intreccio, magari rivendicandone la temporanea necessità storica in funzione anti-comunista, magari pretendendo di collocare quelle condotte nel più ampio e feroce quadro della “Guerra Fredda”, la terza guerra mondiale, invocando infine un giudizio storico, politico e morale ma non penale su quelle scelte. Si sarebbe almeno aperto un dibattito serio in questo Paese su cosa sia stata e sia la democrazia. Ma niente di tutto questo è mai avvenuto, nessuna maturazione civile è quindi stata possibile, nessuna verità riconciliativa è così emersa (perché la verità è in sé una forma di giustizia), condannando, forse per sempre, il popolo italiano a vivere con sospetto e diffidenza il rapporto con le Istituzioni (le conseguenze sul piano politico sono fin troppo evidenti).

Il secondo ordine di motivi sta sul piano della evoluzione di fatto del dispositivo contenuto nell’art.416 bis del Codice Penale. Un dispositivo geniale perché ha la capacità di definire la “mafiosità” criminale non tanto legandola a questa o quella manifestazione storica del fenomeno, quanto ad un certo “modo” di organizzare il crimine e cioè quello fondato sulla forza di intimidazione del vincolo associativo, capace di generare omertà e assoggettamento.

Oggi chi ha questa capacità? Oggi in cosa si declina quella “riserva di violenza” necessaria a certificare la mafiosità di una certa organizzazione criminale? Io sono tra color che sono persuasi che non vada modificato il 416 bis, ma vada indirizzata in maniera più intelligente la sua applicazione.

Per nessuna di queste ragioni è troppo tardi.

Ma per entrambe ci vorrebbe un ceto politico maggiormente consapevole e coraggioso: chissà che non si possa ancora scommettere su una democrazia agita sul terreno della responsabilità anziché su quello del quieto vivere, che è la morte della democrazia. La memoria di Borsellino e di coloro che persero la vita insieme a lui, andrebbe onorata così.

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