Che cosa è successo prima del G8 di Genova? Probabilmente sta qui la risposta alla domanda che neppure i processi hanno potuto sciogliere: perché il G8 di Genova?
Il mio primo ricordo risale alla mattina del 20 luglio, quando ancora non era volato mezzo sasso e non c’era stato mezzo scontro: un corpulento agente del Reparto mobile mi spingeva a colpi di… pancia dopo avermi chiesto il tesserino da giornalista, impedendomi così di tirarlo fuori dallo zainetto. Non ricorderei questo episodio inglorioso (per me e per lui) se non fosse che poco lontano un collega del TG1, sottoposto a simili vessazioni, agitava il telefonino in faccia ai poliziotti urlando: “Adesso chiamo Scajola!” (all’epoca ministro dell’Interno). E se non fosse per i molti cronisti hanno raccontato episodi identici, nonostante il vistoso cartoncino giallo dell’accredito stampa scintillante al collo sotto il sole di Genova, che ci distingueva senza possibilità di errore da qualunque malintenzionato.
Questo per dire che la truppa (circa 11 mila uomini di tutte i corpi, Forestale inclusa) arrivò all’appuntamento del G8 molto carica e incattivita ben prima che il blocco nero innescasse le violenze. Non regge dunque la giustificazione, sbandierata per anni soprattutto dalla destra, della polizia che reagisce, magari in modo un filo esagerato, alle violenze dei devastatori. Le forze dell’ordine arrivarono a Genova già belle cariche per conto loro, ansiose di regolare i conti con le “zecche” (vedi i coretti nazifascisti di Bolzaneto) e di intimidire preventivamente i possibili testimoni, compresi i reporter delle testate più istituzionali.
Questo stato d’animo è stato ben coltivato prima del 20 luglio 2001. Fin da febbraio i servizi segreti, non solo italiani, avevano recapitato ai giornali notizie e informative tanto generiche quanto terrorizzanti. Vi si leggeva per esempio che i manifestanti si stavano preparando a lanciare contro gli agenti “palloncini pieni di sangue infetto da Aids“, a far scivolare dalle alture della città “copertoni incendiati”, a sguinzagliare contro le divise “cani pitbull”, a rapire “agenti isolati” per usarli come “scudi umani”. Fake news ante litteram. Un documento anonimo molto ben informato delle dinamiche interne del Viminale già il 5 giugno prefigurava la morte di un manifestante per mano di un agente “magari inesperto”, con conseguente discredito sul nuovo governo Berlusconi.
In questo clima Alleanza nazionale – siamo ancora lontani dalla svolta moderata di Gianfranco Fini – espresse “solidarietà preventiva” alle forze dell’ordine, in particolare ai carabinieri, qualunque cosa fosse successa. Sul fronte opposto, a maggio i Disobbedienti guidati da Luca Casarini dichiararono “guerra” al G8 e a fine giugno diffusero video in cui si addestravano al fronteggiamento contro le forze dell’ordine. La loro era una strategia più che altro mediatica, ma che in quel clima finì per fare il gioco degli strateghi della tensione.
Da nessuno dei tanti processi genovesi è mai emerso un ordine specifico di picchiare duro (anche se di solito disposizioni di questo genere non lasciano traccia). Dalle carte e dalle testimonianze in aula oggi possiamo dire che la perquisizione alla Diaz degenerò, fin dal raduno degli agenti in Questura, in una spedizione punitiva, probabilmente sfuggita di mano ai superiori che poi si diedero da fare per camuffare la scena del delitto, perpetrato questa volta dagli uomini in divisa. Il mediattivista Mark Covell fu ridotto in fin di vita da diverse ondate di poliziotti – ripresi dalle telecamere, ma non riconoscibili – benché fosse solo, inerme, già a terra, comunque prima dell’irruzione e fuori da qualunque “resistenza”. A Bolzaneto gli abusi iniziarono subito, nel pomeriggio del 20 luglio, contro persone detenute, impossibilitate a difendersi, figuriamoci a “devastare”. Negli scontri di piazza i primi a essere massacrati furono proprio i manifestanti pacifici, quelle della Rete Lilliput in piazza Manin, mentre i più violenti, quelli del blocco nero, furono sostanzialmente lasciati fare – questa la spiegazione ufficiale – per non mettere ulteriormente a rischio i manifestanti pacifici…
Qualcuno si incaricò pure di attizzare la tensione fra gli uomini e le donne in divisa. Almeno tre volte, tra il 20 e il 21 luglio, fu sparsa la voce che fosse morto un agente. La notte in cui stavo salendo verso la Diaz appena assaltata dalla polizia, di fronte alle mie perplessità su un’azione del genere un collega solitamente bene informato mi stoppò: “Ma come, non sai che hanno ammazzato un poliziotto?“. No, non lo sapevo, perché per fortuna non era successo. Ma forse qualcuno della “macedonia di polizia” (copyright di Vincenzo Canterini, capo del Reparto mobile di Roma) che intervenne quella notte non fece in tempo a ricevere la smentita.
Chi fu il regista della strategia della tensione formato terzo millennio? Un politico o un “tecnico”? Davvero il disastro dell’ordine pubblico – su tutti, la carica illegittima dei carabinieri contro i Disobbedienti in via Tolemaide – fu frutto di errori, o qualcuno in quei giorni e in quella lunga vigilia puntava a innalzare la tensione invece di gestirla e stemperarla? Chi, e perché? Vent’anni dopo sono domande ancora senza risposta. Ma, come in ogni mistero italiano che si rispetti, con tanti indizi su cui riflettere e tanti silenzi da provare a scalfire.