Martedì 20 luglio (oggi, ndr), nell’ambito delle manifestazioni per il ventennale del G8 di Genova, si svolgerà il convegno “La tutela dei diritti inviolabili di chi è sottoposto a restrizione della libertà personale. Verità e giustizia per Emanuel Scalabrin”, promosso da Comunità di San Benedetto al Porto, Associazione Antigone e Magistratura Democratica.

Quando ho guardato il programma completo delle iniziative legate al ventennale del G8, ho trovato che questa fosse la più centrata. Guarda indietro ma attualizza, focalizzando cosa deve essere ricordato di quei giorni, spronandoci tutti ad essere protagonisti politici della nostra attualità. Perché quei giorni e quelle notti di luglio 2001, in cui è stato sospeso qualunque stato di diritto, non hanno prodotto ad oggi alcun miglioramento su quel sistema che determina l’accanimento e l’utilizzo del manganello non solo contro chi dissente ma anche contro chi di per sé è già privato della propria libertà.

Al di là di ogni dietrologia, c’è un dato di fatto che va quindi sottolineato perché non passi sottotraccia: se le mele di un albero nascono per lo più marce o lo diventano appena iniziano a formarsi, vuol dire che l’albero è malato e le sue radici affondano in un terreno pregno di veleno e anni di soprusi, abusi di potere, mistificazioni, menzogne e violenza. Insomma, la solita e straconosciuta fottutissima storia: lo Stato è forte con i deboli e debole con i forti.

Se quindi il potere di privare una persona della libertà è il più delicato dei compiti in mano allo Stato, cosa ci raccontano questi ultimi 20 anni? La cronaca giudiziaria è costellata di vicende, di uomini e donne che hanno perso la vita mentre erano nelle sue mani. Da Stefano Cucchi a Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini e molti altri. Tra queste c’è anche una tragica vicenda ligure, quella di Emanuel Scalabrin, 33 anni, trovato cadavere nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga (Savona) la mattina del 5 dicembre 2020 in circostanze più che “dubbie”.

“Quando a gennaio abbiamo ragionato su un’iniziativa che riguardasse il ventennale del G8 del luglio 2001 – mi spiega Domenico Chionetti, presidente della Comunità San Benedetto al Porto di Genova – abbiamo pensato a quello che abbiamo vissuto proiettandolo al tempo in cui viviamo. La libertà di cui siamo stati privati in quelle giornate e la tutela dei diritti umani nella privazione di essa. Abbiamo pensato a Emanuel Scalabrin e oggi pensiamo anche ai video scandalo sui pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, aggressioni che ricordano da vicino quelle della Diaz e di Bolzaneto. Per questo abbiamo deciso di promuovere una riflessione ad ogni livello sulla tutela dei diritti delle persone sottoposte a privazione della libertà”.

20 luglio 2001. Mi tornano in mente fotogrammi frammentati, polaroid sparate veloci una dietro l’altra, vive e allo stesso tempo immobili, congelate nell’archivio della mia memoria, di giorni che hanno segnato nel profondo un’intera generazione. Nella cucina dei miei, la mattina del 20 luglio 2001, mio padre mi implorava di restare a casa. Quando aprii la porta ebbi la sensazione di andare in guerra ma era il nostro momento, quello di una generazione a cui veniva raccontata la Resistenza, i moti genovesi del ’60, il ’68, le lotte operaie che coinvolgevano migliaia di persone. Volevamo urlare qualcosa che Don Gallo, durante il decennale del G8 in piazza Alimonda, sintetizzò in maniera eccellente: “Signori del G8. non vi sembra una cinica pretesa di venirci a dire, ancora una volta, che l’unico mondo possibile è il vostro? Banca mondiale, fondo monetario internazionale, organizzazione mondiale del commercio, mercato selvaggio, la tecnologia sempre a favore del mercato, globalizzazione. Noi vogliamo la globalizzazione dei diritti, noi vogliamo la forza del diritto e non il diritto della forza!”.

Corro velocissimo, non ricordo in 41 anni di aver mai corso così veloce. L’odore acre dei lacrimogeni sparati ad altezza uomo. Mi strofino il limone sugli occhi e penso “Ci stanno massacrando”. Una camionetta dei carabinieri mi viene incontro sparata, dritta, in linea retta. Riesco a scansarla per un pelo sulla sinistra e sento l’aria spostarsi sul mio lato destro. “Ma che sono pazzi!!??” Erano pazzi, sì. Volevano i morti e uno lo hanno avuto. “Uno a zero per noi” Ve la ricordate? “Uno di meno”. Il rumore assordante degli elicotteri, il mio cuore che batte fortissimo. Il servizio del Tg1 del giorno dopo, con Carletto in terra, la testa in un lago di sangue. Le mie lacrime, quelle dei miei amici e le bestemmie che abbiamo dovuto sopportare su quanto doveva essere raccontato di quella piazza. Della Diaz e di Bolzaneto. Di lui. Di tutti noi.

Qualche settimana dopo, un mio compagno di Università cammina in via San Lorenzo, vede arrivare da lontano una pattuglia della polizia e sviene per il terrore.

Rivedo una ferita aperta che non si rimarginerà mai, una ferita che nei mesi e negli anni a venire ha dissanguato un’intera generazione provocando un’anemia, per i più inguaribile, di speranza. Rivedo me che, perdendo ogni ingenuità e visione di un futuro, cado nella trappola di chi ha voluto la morte di Carlo, una trappola iniziata in Piazza Alimonda capace di dilatarsi temporalmente a lungo raggio su chi è sopravvissuto a quel massacro ma è morto dentro.

Quello che vorrei vedere oggi è lo stesso coraggio che abbiamo avuto in quei giorni, la stessa condivisione progettuale di rivendicazione di diritti che hanno tentato di soffocare ma che ancora, nonostante tutto, continua a respirare. Nel 2001 abbiamo drammaticamente perso la nostra battaglia, ci sono tante cose che vorrei dire a riguardo anche sugli assenti, i silenti, sulle responsabilità interne di quello stesso movimento No Global, con il Genoa Social Forum e gli errori, a mio avviso imperdonabili, di strategia. Ma non è il tempo delle polemiche, io in piazza ci andai comunque da battitrice libera e sono felice di non aver dato retta a mio padre.

La storia però è ciclica, lo sappiamo, e in tutto il mondo ci sono persone che continuano a credere in una nuova rivoluzione, una nuova resistenza. Prima o poi maturerà, probabilmente sarò già morta e chi lo sa quando accadrà. Nel frattempo, la rivoluzione non si “aspetta” e allora bisogna farla ogni giorno, ognuno come può e nel contesto in cui si trova. Non è poco. Non è abbastanza. È pur sempre qualcosa ed è necessario. È ciò che permetterà alla rivoluzione e alla resistenza stessa che verrà, di realizzarsi nella sua compiuta essenza: il cambiamento.

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