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La sindrome da guerra fredda che ci prende quando parliamo dell’America Latina

Con che ipocrisia e faziosità guardiamo all’America Latina e ai Caraibi dal nostro punto di osservazione italiano? Questa riflessione mi accompagna ormai da tempo e ho potuto toccare con mano in questi lunghi mesi passati in Colombia come l’informazione e le analisi italiane sui contesti latinoamericani soffrano, ancora troppo spesso, di una chiara e profonda sindrome da guerra fredda.

Le narrazioni proposte non sono solo manicheiste ma spesso volontariamente capziose, quando non palesemente menzognere. Ci ostiniamo ad utilizzare un’epistemologia occidentocentrica esportando visioni politiche e ideali che cercano di manipolare il contesto per farlo aderire alla nostra narrativa. Da un lato i sostenitori del capitalismo filostatunitense, che vedono in tutto ciò che contiene la parola socialismo il demone della democratizzazione delle risorse. Dall’altro la sinistra (più o meno ortodossa) che abbraccia tutto ciò che si autodichiara antimperialista e che sventola (spesso a casaccio) la bandiera con falce e martello.

È così come i manifestanti in Colombia, che dal 28 di aprile scorso si sono resi protagonisti di una protesta sociale senza precedenti, diventano tutti eroi della sinistra, perché si battono contro l’orribile Iván Duque, portatore della dottrina uribista e caposaldo dell’imperialismo nordamericano in Sudamerica. Le molteplici scene di vandalismo dei manifestanti vengono in questo caso silenziate e sminuite, a favore di un racconto che vede lo Stato unicamente come repressore, corrotto e assassino, nonché imbevuto di paramilitarismo. Allo stesso tempo però, sempre per la sinistra, i manifestanti a Cuba diventano tutti vandali pagati dalla Cia e la “povera” polizia cubana è costretta a difendersi dalla turba di degenerati che (non si capisce come) ne hanno abbastanza della rivoluzione di Castro.

L’altra faccia della medaglia non è meno ipocrita. I conservatori chiedono l’intervento umanitario a Cuba che reprime “nel sangue” le proteste; ma nulla di ciò è stato chiesto dagli stessi impavidi democratici rispetto alla Colombia, che negli ultimi mesi conta decine di morti, stupri da parte delle forze dell’ordine, centinaia di desaparecidos e migliaia di feriti. Per la sinistra le proteste sono valide quando avvengono contro Bolsonaro in Brasile, però si tace rispetto a quello che sta soffrendo il popolo del Nicaragua con la sfacciata coppia “sandinista” Ortega-Murillo. Per la destra è necessario garantire elezioni democratiche, trasparenti e con osservatori internazionali in contesti complessi come il Venezuela, ma poi quando queste elezioni vengono vinte legalmente e chiaramente dalla sinistra (caso di Pedro Castillo in Perù), si fa di tutto per gridare alla frode e al complotto togliendo prestigio al vincitore.

Per la sinistra, Jair Bolsonaro è un genocida per come distrugge la storia, la cultura e i territori dei popoli indigeni, però niente (o molto poco) è stato detto quando Rafael Correa (simbolo del socialismo del secolo XXI) faceva lo stesso in Ecuador. Rispetto poi alle popolazioni indigene viviamo dall’Italia la percezione che si tratti di un conglomerato omogeneo di persone sensibili ai temi della giustizia sociale e dell’uguaglianza di genere, quando invece all’interno di questa immensa ed eterogenea comunità che attraversa la regione esistono tali e tante differenze (estreme da ambo i lati) che non basterebbe un libro per descriverle.

Il presidente Bukele, nel Salvador, ha praticamente accentrato su di sé tutti i poteri dello Stato ma non si parla ancora di regime, sempre e quando non scappi al leader millennial la parola socialismo. Il sempre più violento Messico vive un conflitto istituzionale molto grave e le ripetute ingerenze (anche sanzionate) del presidente socialista Andrés Manuel Lopéz Obrador, rispetto agli atri poteri dello Stato, hanno creato non poche tensioni politiche. Il Messico però è il tappo della frontiere Sud degli Usa e quindi per la destra i suoi eccessi diventano sopportabili.

La violenza contro giornalisti, difensori dei diritti umani e civili in Honduras ha da molto tempo superato il limite, eppure qui nessun conservatore ha chiesto un intervento esterno. Infine in Argentina il Movimento delle Donne Indigene per il Buen Vivir ha denunciato di non ricevere appoggio nelle lotte per il loro diritti dalla maggior parte dei movimenti sociali di sinistra, perché con Alberto Fernández al potere questo vorrebbe dire criticare la propria parte politica. Potrei continuare con Cile, Paraguay, Uruguay eccetera, però credo che il concetto sia chiaro.

Spero di aver reso l’idea e di aver mostrato come l’unico approccio possibile verso la complessità latinoamericana passi attraverso uno studio approfondito dei contesti, l’abbandono delle armature ideologiche anacroniste e coloniali e l’esercizio di una onestà intellettuale che sempre di più appare come merce davvero rara. Chi scrive non è immune da vissuti personali, percezioni e filtri (quello dei diritti umani è predominante nel mio caso), quindi non mi escludo da questa critica, che deve farci riflettere tutti e tutte.