Cultura

Operalia, la kermesse della musica lirica: l’Italia a Mosca con una storia tutta al femminile

di Ilaria Muggianu Scano

Claudia Urru è l’unica italiana a Operalia – The Word Opera Competition 2021, kermesse itinerante di musica lirica, fondato dal tenore Placido Domingo – quest’anno appuntamento a ottobre presso lo storico teatro Bolshoi di Mosca – che ospita annualmente le eccellenze mondiali della musica lirica. Quest’anno l’unico artista a sventolare il tricolore italiano sarà la giovanissima Claudia Urru, soprano, di origini barbaricine come Grazia Deledda, classe 1992, studi classici e pianistici.

L’ultima edizione dell’Operalia vinta da un soprano italiano è quella del 2014, a Los Angeles, in cui trionfò Mariangela Sicilia. Claudia Urru, reduce da numerosi successi in tutto il mondo, a ridosso della pandemia è Madama Cortese ne Il viaggio a Reims al Rossini Opera Festival di Pesaro, Isabella d’Aragona ne Le nozze di Leonardo di Antonio Di Pofi al Verdi di Trieste, è a Trapani per Il matrimonio segreto. Nel 2020 è Regina della notte in Flauto magico all’Opera di Muscat in Oman, all’Opera di Montecarlo per Il pirata, al Rof di Pesaro, il Requiem di Fauré a Cagliari; esegue lo Stabat Mater di Pergolesi con Barocchisti per la Radio della Svizzera Italiana. Nel 2021 è Giulia ne La scala di seta al Festival Rossini in Wildbad.

Sempre mano nella mano con la sua maestra, la pugliese Maria Grazia Pani, Stage Director presso la Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari e professore ordinario presso il Conservatorio di Musica Classica Nicolò Piccinni. Una storia ammaliante di affinità elettive, tutta al femminile, maturata sotto il segno della musica, una staffetta artistica dalla talentuosa insegnante all’allieva più ricettiva. Un’intesa artistica totale con quella che, in lingua italiana, come possiamo declinare? Mentora? Pigmaliona? Anfitriona? Mecenatessa? Non esiste un equivalente femminile per indicare la generosità condivisiva della donna verso una giovane pupilla. Probabilmente perché è più frequente tra donne quella che antropologicamente è definita la “Sindrome dell’ape regina“?

Secondo i manuali di psicologia, la sindrome si manifesterebbe in professioniste mature che si trovano nella condizione di interagire con colleghe e dipendenti più giovani, provando un senso di insicurezza e rancore nei confronti delle giovani, proiettando ed esasperando stilemi legati a un irrazionale agone competitivo. Perché l’identificazione con l’insetto? L’ape regina ha un indiscusso ruolo di protagonista nel complesso equilibrio gerarchico e lavorativo dell’alveare, la supremazia data dalla fertilità, condizione assimilabile al talento fecondo in ambito lavorativo, dunque socialmente riconosciuto, è trionfalmente e ulteriormente enfatizzato, per contrasto, dal corteo di api sterili che ambiscono al suo ruolo.

Rimarrebbe una simpatica nota di colore se gli addentellati con la società moderna non fossero tanto radicati da impedire, di fatto, il conio di un termine che indichi l’opposto di tale sindrome. La lingua – con buona pace di battaglie e spesso guerre di puristi, talvolta prêt-à-porter, lontani da ogni contesto accademico accreditato, degni del più oscuro periodo autarchico – è un organo pulsante che si evolve, palpita e cresce sotto l’impulso di un’esperienza nuova che necessita quindi di un battesimo onomastico apposito. Il fatto che non esista un’equivalente di Mecenate, Pigmalione, Mentore, Anfitrione al femminile vorrà forse indicare la dolorosa e pavida assenza di esperienze statisticamente rilevanti nel Belpaese? Intanto, in bocca al lupo Claudia Urru.

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