Secondo alcuni osservatori, la decisione del costruttore-editore di investire in piazzetta Cuccia è finalizzata a ricostruire un investimento bancario in portafoglio e contestare la gestione dell'amministratore delegato delle Generali, Philippe Donnet. Ma c'è chi sostiene che la sua ottica sia - anche in questo caso - quella della realizzazione di una plusvalenza
E’ scattato il gioco delle alleanze in vista del prossimo consiglio di amministrazione delle Generali previsto per il 2 agosto. A far partire le consultazioni la mossa dell’editore-costruttore Francesco Gaetano Caltagirone che ha rafforzato la presa su Mediobanca mettendo in allerta anche Palazzo Chigi. Il motivo? Piazzetta Cuccia è il maggior socio della compagnia triestina che rappresenta un asset di primaria importanza per il Paese: le Generali hanno infatti in pancia 60 miliardi di titoli di Stato italiani su un patrimonio gestito da 630 miliardi. Sono quindi un grande e strategico compratore del nostro debito pubblico. Per non parlare del fatto che hanno investimenti anche in società quotate italiane. Non a caso, nell’eventualità di operazioni straordinarie sulla compagnia triestina, il governo ha in mano poteri speciali da esercitare se si manifesta un grave pregiudizio per la nazione.
La questione dei cambi di assetto azionario in Mediobanca e a cascata delle Generali non è quindi solo una storia fra privati, ma ha una sua valenza strategica per il Paese che da anni registra l’interesse di rivali francesi e tedeschi per la compagnia triestina. Per questa ragione, per i soci e gli osservatori pubblici, l’appuntamento agostano delle Generali sarà il primo incontro utile per capire come sta cambiando il salotto buono della finanza italiana. Tutto questo dopo che Caltagirone, già socio di Generali (5,6%), si è proiettato fino al 5,055% di Mediobanca (di cui il 3,003% in titoli e il resto in opzioni) con un esborso potenziale da 430 milioni. Ne è diventato il secondo socio dopo il fondatore di Luxottica, Leonardo Del Vecchio, che è proprietario del 4,8% della compagnia triestina e ad agosto dovrebbe arrivare a detenere il 19,99% di Mediobanca (oggi è al 18,9%).
Secondo alcuni osservatori, la decisione di Caltagirone di investire in Mediobanca è finalizzata a ricostruire un investimento bancario in portafoglio e contestare la gestione dell’amministratore delegato delle Generali, Philippe Donnet. Operazione, quest’ultima, in cui sarebbe spalleggiato anche Del Vecchio. Tanto più che in ballo c’è il rinnovo del consiglio di amministrazione della compagnia triestina: la scadenza del mandato è nella primavera del 2022, ma sono già iniziate le manovre per identificare i nuovi componenti del consiglio. L’obiettivo dei due industriali italiani, che a settembre dovrebbero controllare il 25% di Mediobanca, dovrebbe essere quindi una svolta manageriale delle Generali. Un cambiamento che dovrebbe consentire alla compagnia triestina di potenziare il suo percorso di crescita al pari dei rivali europei affrontando sfide importanti come digitalizzazione, fusioni e aggregazioni. Tutto questo ammesso che Caltagirone e Del Vecchio si muovano all’unisono.
A Piazza Affari c’è infatti chi sostiene che le cose potrebbero anche stare diversamente: mentre Del Vecchio sarebbe pronto a difendere Piazzetta Cuccia dagli assalti stranieri, Caltagirone sarebbe invece più nell’ottica della realizzazione di una plusvalenza. Poco importa che si tratti di dividendi o di guadagni da cessione dei titoli sulla scia di un raid esterno. Non sarebbe la prima volta del resto che il costruttore-editore realizza laute plusvalenze dalla vendita di pacchetti azionari di banche. Con la banca dell’Agricoltura ci guadagnò circa 200 milioni di lire. Qualcosa non funzionò con Mps (con un rosso da 200 milioni), ma il recupero avvenne presto con l’investimento in Unicredit ceduto con una plusvalenza attorno a 180 milioni. Ma il colpo grosso ci fu nel 2006 con la cessione della partecipazione detenuta nella Bnl alla francese Bnp Paribas. All’epoca Caltagirone capitanava la cordata degli immobiliaristi che dovevano difendere l’italianità dello storico istituto romano. Ma alla fine prevalse il guadagno da plusvalenza: circa 360 milioni.