“La orden de combate está dada, a la calle los revolucionarios…”. Con queste parole, Miguel Mario Diaz-Canel Bermúdez, presidente di Cuba, nonché “primer secretario” del Partito Comunista, ha concluso “en vivo y en directo” nel pieno “prime time” di domenica 11 luglio, il suo molto solennemente preannunciato discorso-appello alla Nazione.
Nelle strade, ancora risuonava l’eco d’una protesta che, iniziata in sordina in quel di San Antonio de los Baños, a una trentina di chilometri a ovest della capitale, s’era rapidamente estesa, come la famosa iskrá, scintilla, di leniniana memoria, a ogni anfratto della prateria. Cuba era in fiamme. O meglio: era percorsa da un’ondata di proteste quale mai s’era vista lungo i sessanta e passa anni d’una rivoluzione che tale continua a chiamarsi nonostante non sia – da ormai moltissimo tempo – che la difesa d’uno status quo autoritario e del mito di se medesima.
A nome di questa rivoluzione Diaz-Canel aveva parlato. E davvero non avrebbe potuto essere, nella sua allocuzione, più marzialmente drammatico e, nel contempo, più piattamente tradizionale. Marzialmente drammatico perché proprio questo – un molto marziale appello al combattimento, o alla guerra civile – inequivocabilmente era il suo discorso. E piattamente tradizionale perché le sue parole non si discostavano d’un millimetro dall’idea di fondo che sempre ha marcato la relazione tra il governo rivoluzionario e qualsivoglia forma di dissenso.
In sostanza: chi protesta – e quali che siano le ragioni della protesta – è un nemico della patria, un burattino manovrato dall’imperialismo o, nella migliore delle ipotesi, un asociale, un delinquente. E, comunque, è un mercenario, uno strumento prezzolato del “bloqueo criminal”, dell’embargo con il quale l’imperialismo sta, in recente “crescendo”, cercando di strangolare Cuba. Non c’è nulla da vedere o da capire (se non, per l’appunto, l’evidenza d’un complotto controrivoluzionario eterodiretto) in quel che sta accadendo. Non c’è alcuna voce da ascoltare, o alcuna esigenza da accudire. C’è solo da colpire. Ed è con questo obiettivo, colpire, che “los revolucionarios” – vale a dire: le cosiddette “boinas negras” delle forze speciali, più il complesso delle capillari organizzazioni sociali del castrismo, più la massa enorme dei dipendenti di Stato – sono, più o meno spontaneamente, scesi “a la calle” per riconquistare la piazza perduta.
Ci sono riusciti? Difficile rispondere. Nella valanga di immagini che vanno circolando in rete – in quella rete che, come sottolineato in un precedente post, è stata la vera forza moltiplicatrice della protesta – è molto spesso arduo distinguere tra il vero ed il falso. Ci sono manifestazioni pro-governo scambiate per proteste e viceversa. Ci sono cortei di solidarietà che percorrono le strade di Miami, presentate come manifestazioni in località cubane. Come sempre c’è, in rete, di tutto e di più. Un “di più” che, spesso, è un po’, o molto, meno della verità. Ma due cose, mi pare, già si possono dire.
La prima è che, per quanto diffuse (domate o meno) siano state e siano le proteste di questi giorni, non siamo – per usare un’espressione cara agli anticastristi Doc, quelli che, da molti decenni, dall’altro lato dello stretto della Florida, a ogni mezzanotte d’ogni 31 dicembre brindano con un “el proximo año a la Havana” – di fronte alla “volta buona”. O, almeno, non ancora. I due pilastri del regime – il partito unico e le forze armate – restano ancora solidamente in piedi. E – se come sempre non facile è calcolare il consenso reale di cui gode il regime – in piedi sicuramente resta l’intero apparato di repressione. Il tutto con un’aggiunta: è proprio la spontaneità delle manifestazioni di queste ore, prive d’una riconoscibile leadership, l’elemento che, paradossalmente, meglio garantisce la continuità del governo che le accusa d’essere frutto d’un diabolico, ben foraggiato ed organizzatissimo complotto.
La seconda cosa – diametralmente contrapposta – è che, per quanto non sia ancora “la volta buona” (o la volta cattiva), e per quanto possa essersi affievolita la forza d’urto della protesta, i moti dell’11 luglio hanno definitivamente cambiato uno dei più collaudati paradigmi della politica cubana. La repressione ha sempre avuto, lungo i sessant’anni della rivoluzione, una natura “preventiva”, il cui scopo era, per l’appunto, quello d’evitare la discesa in piazza della protesta o la necessità d’un ricorso alla violenza. O, se si preferisce, la repressione era un ricorso alla violenza praticato in forma frammentata e diffusa, capillare, anticipato, cautelativo e precauzionale.
La vergogna delle Umap – unità militari d’appoggio alla produzione, di fatto campi di lavoro forzato – nacque, negli anni 60, giusto sulla base di questi principi. Fu sulla base di questi principi che nelle Umap finirono dissidenti, omosessuali, cattolici praticanti o, semplicemente, giovani refrattari alla retorica di regime. E fu su questa base che, più tardi, venne promulgata una legge, ancora pienamente in vigore, nota come “ley de peligrosidad predelictiva” che consente di condannare per delitti che si suppone possano esser dal “reo” commessi in futuro. Partendo da che cosa, “si suppone”? Partendo, ovviamente, dal sistema di reciproco spionaggio installato in ogni anfratto della vita sociale. Nei posti di lavoro, in famiglia, attraverso un sistema di infiltrazione rivelatosi, negli anni – qualcuno ricorda il tristissimo processo della “primavera negra” nel 2003? – d’assai meschina, ma straordinaria efficacia.
Questo ci dicono le proteste che scuotono Cuba. La gente è in piazza. I tempi della “prevenzione” e della paura sono finiti e una nuova era è cominciata sullo sfondo d’una pandemia, d’una molto profonda crisi economica e della obsolescente, incoerente ed ingiusta, ma permanente presenza dell’embargo. Tutti temi che, per la loro importanza, meritano un post a parte.