L'ex consigliere Csm, primo destinatario degli atti, dà la propria versione: "Non potevo formalizzare la questione al Csm". Il pg di Cassazione, "se riteneva irregolare la procedura, essendo titolare dell'azione disciplinare, poteva e doveva interrogarmi subito come persona informata sui fatti. Non sarà quest'accusa a sporcare 42 anni di servizio"
“La verità è che Storari in un Paese serio sarebbe destinatario di un encomio per aver cercato di fare rispettare la regola, invece è sconfortante sia sottoposto ad azione disciplinare”. Intervistato dal Corriere della Sera, l’ex consigliere togato del Csm Piercamillo Davigo dà la propria versione sulla fuga di notizie relativa ai verbali di Amara sulla presunta “loggia Ungheria”. Davigo è indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio insieme al sostituto procuratore di Milano Paolo Storari, che glieli consegnò in via informale ad aprile 2020. “Mi descrisse una situazione grave“, spiega, “e cioè che a quasi 4 mesi dalle dichiarazioni di Amara su un’associazione segreta i suoi capi non avevano ancora proceduto a iscrizioni (della notizia di reato, ndr), che invece il codice richiede di fare immediatamente. Per evitare possibili conseguenze disciplinari – precisa – gli consigliai di mettere per iscritto”, e lui “mi diede file Word del pc a supporto della memoria”.
Alla domanda sul perché non abbia avvisato in modo formale l’organo di autogoverno, risponde che “in quel caso non si poteva: se la procedura da seguire non consente di mantenere il segreto, allora non si può seguire (della “loggia Ungheria”, secondo Amara, fanno parte anche due membri del Csm, ndr)”. Tuttavia, quando “a inizio maggio Storari mi disse che nulla era cambiato e anzi che Greco (Francesco, il procuratore capo di Milano, ndr) lo aveva rimproverato per la sollecitazione, ritenni urgente avvisare il Csm e informai il vicepresidente Ermini”, consegnandogli i verbali: lui “convenne sulla serietà e sulla gravità della situazione”. In seguito, aggiunge, ne parlò anche con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, membro di diritto del Csm, che “non mostrò alcuna sorpresa, segno che doveva essere già stato informato. Non mi chiese se avevo i verbali, ma nemmeno mi disse “No, guarda che così non va bene…””.
Ieri proprio Salvi ha chiesto alla commissione disciplinare del Csm l’allontanamento di Storari da Milano e il divieto di svolgere ancora le funzioni di pm, contestandogli di aver cercato di condizionare l’attività della procura meneghina. “Lei è in pensione, ma vale pure per lei, ed è accusa sanguinosa per un pm storico di Milano e Mani pulite”, fa notare l’intervistatore, Luigi Ferrarella. Davigo ribatte secco: “Quindi, se uno cerca di fare rispettare la legge, poi bisogna sentirsi dire una cosa del genere che è fuori dal mondo? Nessuno si è sognato di dirmi di formalizzare. Non lo fece Ermini e non lo fece Salvi. Se mi avessero chiesto di formalizzare, avrei fatto subito una relazione di servizio. Salvi, se riteneva irregolare la procedura, essendo titolare dell’azione disciplinare, poteva e doveva interrogarmi subito come persona informata sui fatti. Invece non lo ha fatto, salvo poi prendersela con Storari. Non potevo – dice – non riferire a chi di dovere una sitazione una situazione gravissima che Storari mi aveva segnalato nel mio ruolo istituzionale. Io credo di aver servito con disciplina e onore la giustizia, e non sarà questa accusa, infondata, a sporcare 42 anni di servizio“.
Davigo, in ogni caso, nega che l’accaduto possa configurare violazione del segreto d’ufficio, che “non è opponibile al Csm e quindi ai membri (salvo a chi non lo possa conoscere per ragioni soggettive) e in ogni caso mai c’è violazione del segreto d’ufficio quando venga comunicato ad altro pubblico ufficiale tenuto al segreto”. Ed è per questo, spiega, che parlò dei verbali anche al presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, che voleva farlo rappacificare con l’ex compagno di corrente Sebastiano Ardita, citato da Amara come uno dei membri della loggia Ungheria. “Insisteva anche lui sulla mia pacificazione con Ardita, io gli spiegai che non volevo per ragioni pregresse. E poi, raccomandandogli due volte che come pubblico ufficiale fosse vincolato al segreto, aggiunsi che oltretutto Ardita era anche indicato come appartenente a un’associazione massonica. L’alternativa era far dilagare il chiacchiericcio”.