I Giochi sono da sempre teatro di imprese, delusioni e grandi storie che hanno visto i colori azzurri nel ruolo di grandi protagonisti. Una parabola sportiva che abbiamo deciso di racchiudere in otto storie che sono rimaste nella memoria, una sintesi certamente non esaustiva delle molte imprese italiane
Dopo lo slittamento di un anno fa a causa della pandemia iniziano le Olimpiadi di Tokyo, la 23esima edizione della manifestazione. La prima senza il pubblico. I Giochi sono da sempre teatro di imprese, delusioni e grandi storie che hanno visto i colori azzurri nel ruolo di grandi protagonisti. Una parabola sportiva che abbiamo deciso di racchiudere in otto storie che sono rimaste nella memoria, una sintesi certamente non esaustiva delle molte imprese italiane.
Trecentocinquantadue metri. Una distanza breve che diventa però un’enormità quando hai nelle gambe oltre 40 chilometri di corsa. E sono proprio questi 352 metri in più a privare l’Italia del primo oro olimpico nella maratona. È la storia di Dorando Pietri e di come una beffa possa diventare un’impresa da tramandare. È il 1908. Siamo alla quarta edizione delle Olimpiadi moderne. Dopo Atene, Parigi e Saint Louis, i giochi arrivano a Londra. È il giorno della maratona. Il percorso per la prima volta è di 42,195 chilometri (distanza che verrà riconosciuta ufficiale a partire dal 1921). Gli organizzatori hanno deciso di aggiungere circa 352 metri. Motivo? I primi giochi di Sua Maestà non potevano non finire davanti al palco reale. Sono 56 gli atleti alla partenza e tra questi c’è Dorando Pietri. L’azzurro inizialmente si mantiene nelle retrovie. Verso metà corsa poi cambia passo. La sua progressione è costante e gli permette di arrivare al 32esimo chilometro al secondo posto. Il sudafricano Charles Hefferon è distante 4 minuti. Sette chilometri dopo Pietri raggiunge Hefferon e si prende la testa della corsa. Mancano solo un paio di chilometri all’arrivo. Pietri sembra avere la vittoria a un passo ma, all’improvviso, la disidratazione lo colpisce. La lucidità viene meno e quando arriva all’ingresso dello stadio sbaglia strada. I giudici lo fanno tornare indietro, ma Dorando Pietri cade esausto. Viene aiutato a rialzarsi. Mancano circa 200 metri ma ormai fatica a reggersi in piedi. Pietri cade altre quattro volte e ogni volta riceve un aiuto. Barcollando taglia il traguardo, prima di crollare a terra quasi esanime. Verrà portato fuori dallo stadio con la barella. La medaglia d’oro sarebbe sua ma la squadra americana presenta ricorso contro i numerosi aiuti ricevuti. Il reclamo viene accolto. Pietri è squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo. La vittoria è assegnata a Johnny Hayes. Una beffa mitigata dall’enorme popolarità, in Italia e all’estero. Il compositore Irving Berlin gli dedica la canzone “Dorando”, mentre negli Stati Uniti Pietri riceve un lauto ingaggio per una serie di gare-esibizione. Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, va addirittura in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. E stavolta a vincere è l’italiano.
La Nazionale di calcio, Berlino 1936
Non è la squadra che ha vinto il primo Mondiale due anni prima. Non ci sono Meazza e Pioli ma c’è Vittorio Pozzo in panchina e questo basta e avanza. In squadra ci sono solo giovani senza esperienza internazionale. Studenti universitari che, nella grande maggioranza, non hanno mai calcato un campo di Serie A: Venturini, Foni, Rava, Baldo, Piccini, Locatelli, Frossi, Marchini, Bertoni, Biagi, Gabriotti. Eppure la medaglia d’oro arriva lo stesso. Nella storia del nostro calcio è ancora oggi l’unica. Pozzo chiede alla giovane rosa dedizione assoluta e, probabilmente, non si aspetta di venire ripagato in questa maniera. Stati Uniti, Giappone, Norvegia e Austria. Un filotto prestigioso quanto sorprendente che ha in Annibale Frossi l’artefice principale. È lui a trascinare l’Italia verso l’oro olimpico. Sette reti che valgono al 23enne friulano il titolo di capocannoniere. L’uomo delle reti decisive. È sua quella dell’1-0 agli Stati Uniti, del 2-1 definitivo contro la Norvegia in semifinale e, soprattutto, è sua la doppietta in finale contro l’Austria (ancora 2-1 per gli azzurri) . Nell’8-0 dei quarti contro il Giappone va invece a segno per tre volte. Ma non c’è soltanto Frossi a prendersi la scena in Germania. C’è anche Libero Marchini. È uno dei punti di forza ma non è per le sue gesta in campo che viene ricordato. In finale, davanti ai 90.000 dell’Olympiastadion di Berlino, la partita è appena finita. Gli azzurri sono tutti schierati davanti alle tribune, intenti nel saluto romano. Tutti tranne uno. Libero Marchini si è rifiutato, fingendo un prurito a un ginocchio.
L’asta ha oscillato leggermente ma non è caduta. È fissata a 1,97 metri. Sara Simeoni ce l’ha fatta. È il suo secondo tentativo. Atterra sul materasso e subito si volta esultante, con quell’espressione di chi sa di aver compiuto l’allungo decisivo. È in testa alla finale del salto in alto e sa che, volendo, può spingersi anche oltre quella misura. A Mosca la Simeoni non era arrivata soltanto da favorita ma anche da primatista del mondo. Due metri e un centimetro stabilito agli Europei 1978 di Praga. È la favorita ma questo non le aveva dato tranquillità. Come si fa a mantenere la concentrazione quando tutti ti vedono già vincitrice? Prima della finale la pressione si era fatta sentire. Aveva avuto una crisi d’ansia, sensazione di svenimento e lacrime incontrollabili. Poi, dopo alcuni minuti, la situazione era tornata alla normalità e Sara Simeoni aveva cominciato a fare quello che sapeva fare meglio: saltare. Dopo aver saltato 1,97 la pressione è passata tutta sulla polacca Kieran e la tedesca dell’est Kirst. La Simeoni è a due salti dall’oro olimpico e attende trepidante. L’asta dell’avversaria polacca cade per due volte, mentre la Kirst si ritira. Sara Simeoni è campionessa olimpica. È la seconda donna dopo Ondina Valli a centrare una medaglia ai Giochi nell’atletica leggera. Un momento storico che purtroppo non potè essere festeggiato con l’inno italiano durante la premiazione. L’Italia aveva scelto di non boicottare i Giochi di Mosca ma anche di non far risuonare l’Inno di Mameli in terra sovietica.
Pietro Mennea, Mosca 1980
Ottava corsia. Non certo il punto migliore per pensare all’oro. La condizione c’è ma le sensazioni in pista meno. Pochi giorni prima nemmeno si era qualificato per la finale dei 100 metri. Eppure tutto il mondo guarda lui per quell’ultimo atto dei 200. Pietro Mennea è il primatista del mondo. Meno di un anno prima, il 12 settembre 1979, aveva fermato il cronometro di Città del Messico a 19”72. Allo Stadio Lenin, nella capitale sovietica, sono da poco passate le 8 di sera quando Mennea si stacca dai blocchi di partenza. Le sensazioni non buone diventano pessime quando il pugliese vede Allan Wells azzeccare lo scatto. Il britannico ha vinto pochi giorni prima i 100 metri e pare essere a un passo dalla doppietta. Al curvone Mennea è solo quarto ma sul rettilineo finale tante cose possono accadere. Le sensazioni cattive possono trasformarsi rapidamente. Ed è proprio quello che succede. Centimetro dopo centimetro Mennea recupera e supera i suoi avversari. Tutti. Il cubano Leonard, il giamaicano Quarrei e Wells. Alla fine è due centesimi davanti: 20”19. Incredulo Mennea spalanca gli occhi, alza le braccia e, forse, pensa che il tempo è alto. Poco importa. La medaglia d’oro è sua.
“La prua è italiana”. È una voce roca, esausta e entusiasticamente delirante quella che entra nelle case degli italiani che seguono la finale del “due con” di canottaggio. La voce è quella di Giampiero Galeazzi che racconta la gara dei fratelli Carmine e Giuseppe Abbagnale. I “Fratelloni d’Italia” come li ha ribattezzati lo stesso giornalista. L’equipaggio azzurro – campioni olimpici in carica – è in testa grazie a una grandissima partenza che ha colto di sorpresa la barca degli inglesi Redgarve-Holmes, sulla carta il principale pericolo. Le altre avversarie sono Germania dell’Est, Romania, Bulgaria e Unione Sovietica. Tutte le imbarcazioni sono racchiuse in cinque secondi. Ai 1000 metri, l’Italia ha 3″28 di margine sull’armo bulgaro, mentre Redgrave ed Holmes sono staccati di ben 5″25. Galeazzi aumenta il tono e il ritmo della sua voce al microfono come Carmine e Giuseppe Abbagnale quello dei loro colpi sui remi. Negli ultimi 500 metri arriva però la sorprendente rimonta dei tedeschi dell’est, che recuperarono la bellezza di 5 secondi nell’ultimo quarto di gara. Gli Abbagnale, con Peppino Di Capua, non tremano e tagliano il traguardo in 6’58″79, con 1″84 di vantaggio sulla Germania dell’Est e 3″16 su Holmes e Redgrave. Poche ore dopo anche il piccolo della famiglia, Agostino, vince l’oro nel “quattro di coppia”. È il trionfo totale.
Domenico Fioravanti, Sydney 2000
È il 17 settembre 2000 a Sydney. La gara è quella dei 100 metri rana. In 104 anni di Olimpiadi moderne mai il nuoto maschile italiano è riuscito a centrare una medaglia d’oro. Il peso delle aspettative è enorme sulle spalle di Domenico Fioravanti, 23enne di Trecate. Non c’è soltanto l’attesa per una medaglia mai raggiunta dal nuoto italiano ma c’è anche un percorso sportivo poche volte così promettente. Primo agli Europei di Istanbul (primo oro europeo per l’Italia nella rana), terzo nelle graduatorie mondiali di fine anno nel 1999. Inoltre Fioravanti arriva ai Giochi da campione europeo in carica, titolo conquistato a Helsinki appena due mesi prima. L’entrata in acqua è buona, la prima vasca è di puro controllo. A dettare l’andatura sono l’americano Ed Moses e il russo Roman Sludnov, due tra gli specialisti più forti al mondo. Nella seconda parte di gara l’azzurro cambia passo completamente. La sua è una progressione irresistibile che si completa negli ultimi dieci metri. È lui ha toccare per primo. È lui il primo a scrivere una pagina storica del nuoto italiano. Sarebbe già abbastanza così. Ma Fioravanti non si accontenta. Ci sono ancora i 200 metri rana. Nei pronostico della stampa internazionale specializzata l’azzurro non ha molto credito. Invece la sua supremazia è totale ed è racchiusa in un solo numero: 2’10″87. È il secondo miglior tempo di ogni epoca della distanza. È il primato europeo. La festa azzurra è completata con il terzo posto di Davide Rummolo.
Stefano Baldini, Atene 2004
Da Maratona ad Atene, come Filippide, 42 chilometri e 195 metri. Ci ha messo 2 ore, 10 minuti e 55 secondi Stefano Baldini per vincere l’ultima gara delle Olimpiadi di Atene 2004. All’interno dello stadio Panathinaikos, l’azzurro completa un’impresa epica, diventando il secondo italiano a vincere la corsa simbolo dei Giochi. Sono passati 16 anni da Gelindo Bordin, campione a Seul 1988, e ben 96 dal caso di Dorando Pietri. Non è tra i favoriti Baldini. È piuttosto un outsider. Uno dei quegli atleti che sai che possono fare qualcosa di speciale. L’azzurro fin dai primi metri è nel gruppo di testa. Nella maratona c’è poco spazio per l’azzardo. Bisogna sapere leggere la situazione, dosare le energie e valutare quando è il caso di attaccare. E Baldini quel 29 agosto è lucidissimo. Verso metà percorso allunga insieme al keniota Tergat e all’americano Keflezighi. Tutto alla caccia del brasiliano De Lima, in testa alla corsa da solo. Oltre quaranta chilometri sono tanti da percorrere e gli imprevisti molti. Fatica, infortuni o l’invasione di uno spettatore. È proprio quello che accade al chilometro 36. Il prete irlandese Cornelius Horan elude la sorveglianza e blocca la corsa di De Lima. I secondi persi dal brasiliano non sono molti. Molto più pesante è la perdita del ritmo. Il sorpasso di Baldini diventa inevitabile. Allo scattare delle due ore l’azzurro supera il brasiliano e se ne va. È il momento della svolta. Baldini non si ferma più. Il titolo della Gazzetta dello Sport del giorno dopo non ha bisogno di interpretazioni: “Dio di Maratona”. “Di Atene ricordo ogni metro del percorso”, ha detto due mesi fa per i suoi 50 anni. Non si stenta a credergli. Cosa c’è di più grande per un atleta di vincere la maratona lì dove le Olimpiadi sono nate?
Il trionfo del fioretto femminile, Londra 2012
Ventuno secondi nel fioretto sono pochi. Soprattutto quando si è sotto di quattro stoccate. Valentina Vezzali è tre volte campionessa alle Olimpiadi ed è a un passo dalla sconfitta contro la coreana Nam: 12-8. Poi scatta qualcosa. Forse è l’orgoglio della jesina o forse è la paura della Nam. In venti secondi il risultato cambia: 12-9, 12-10, 12-11. A un secondo dalla fine l’azzurra tocca ancora e pareggia. Incredibilmente si va all’extratime. Chi fa punto ha vinto. In quel momento non c’è nessuno all’interno del palazzetto che non sappia chi vincerà il duello. La portabandiera italiana va ancora a segno, 13-12. Valentina Vezzali ha vinto. Per molti è la sua impresa più grande. Il podio tutto azzurro è realtà. Si, perché la sfida tra Vezzali e Nam non mette in palio l’oro ma “solo” il bronzo. A contendersi la medaglia più prestigiosa sono invece Arianna Errigo e Elisa Di Francisca. Quest’ultima è la campionessa mondiale in carica ma la favorita è la prima. È stata lei infatti a battere la più grande fiorettista di ogni tempo in semifinale. Anche la finale tra le due azzurre si conclude al minuto supplementare. Errigo prima allunga sull’11-8 ma senza affondare il colpo. Di Francisca rimonta e all’extratime piazza la stoccata decisiva. Per lei è la terza rimonta consecutiva dopo quelle compiute contro Nam e la tedesca Golubitskyi ai quarti. L’ennesima pagina memorabile per la scherma italiana.
Twitter: @giacomocorsetti