Processi “morti” a metà: per alcuni imputati si fermano, per altri vanno avanti un altro po’ per poi chiudersi comunque. Per altri ancora, invece, proseguono. Tutte persone finite davanti allo stesso giudice ma il cui percorso giudiziaria a un certo punto seguirà percorsi doppi e tripli. È uno dei possibili effetti collaterali della riforma della giustizia di Marta Cartabia. Una norma che la stessa ministra ha spiegato di essere disponibile a modificare. “Vanno prese in considerazione le preoccupazioni sull’improcedibilità”, ha riconosciuto la guardasigilli due giorni fa. E quindi le preoccupazioni espresse da più parti sulla norma che “uccide” i processi meritano un approfondimento. Per più di un motivo.
Come è noto, infatti, il nuovo meccanismo studiato dalla guardasigilli mantiene la prescrizione esistente solo fino al primo grado. Nel secondo subentra un altro concetto, quello dell’improcedibilità. Se l’Appello non si conclude entro due anni, il processo non può più andare avanti, cioè muore in via definitiva. Lo stesso vale per quello in Cassazione, dove la tagliola scatta entro un anno. Il processo di secondo grado si dovrà concludere in tre anni, mentre quello in Cassazione dovrà durare massimo 18 mesi, per i reati contro la pubblica amministrazione: concussione, corruzione, istigazione alla corruzione e induzione indebita a dare o promettere utilità. Tempi più lunghi sono previsti anche per reati gravi come la mafia e il terrorismo, mentre sono completamente esclusi da questo meccanismo quelli puniti con l’ergastolo, come l’omicidio e la strage.
Fin qui è tutto ampiamente noto e dibattuto Ma cosa succede quando in uno stesso procedimento ci sono imputati per reati diversi? Facciamo un esempio: imputate nello stesso processo ci sono tre persone accusate rispettivamente di furto, associazione a delinquere di stampo mafioso e omicidio. In primo grado vengono tutte condannate. In secondo grado il procedimento per il primo reato, il furto, deve celebrarsi entro due anni: in caso contrario quella posizione dovrà essere considerata improcedibile. Il primo imputato, dunque, uscirebbe dal processo. Il secondo, quello accusato di associazione mafiosa, rimarrà a giudizio un altro anno: se entro tre anni in totale il procedimento non dovesse concludersi, anche per il presunto mafioso – già condannato in primo grado – scatterebbe la tagliola dell’improcedibilità. Davanti alla corte d’Assise, dunque, rimarrà solo il terzo imputato, quello accusato di omicidio: essendo un reato punito con la pena massima dell’ergastolo non solo non si prescrive, ma non beneficia neanche dell’improcedibilità.
Il nostro esempio non è un caso di scuola ma una situazione comunissima in molti processi alla criminalità organizzata. L’ultimo caso, per esempio, è rappresentato dal maxi processo ai Casamonica, che andrà a sentenza il prossimo 20 settembre: gli imputati sono accusati di reati che vanno dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, l’usura e detenzione illegale di armi. Con la nuova legge avrebbero tutti termini d’improcedibilità diversi. In secondo grado, dunque, la corte d’Assise d’Appello dovrebbe bloccare più volte il processo, per calcolare se i termini di improcedibilità dei vari reati sono stati raggiunti. Con l’effetto che una norma inventata – da quello che dice la ministra – per rendere più brevi i processi d’Appello finirebbe con allungarli.
Senza considerare che questo meccanismo è anche abbastanza casuale. Il motivo? In uno stesso distretto esistono spesso sezioni di corti d’appello che hanno tempi medi diversi: c’è chi riesce a chiudere un processo in meno di due anni, chi invece ci mette molto di più. Dunque ci saranno imputati fortunati e imputati sfortunati, a seconda della velocità della corte in cui finiscono. O magari quelli che cercheranno di andare a giudizio davanti ai giudici meno veloci. In un modo o nell’altro.