L’improcedibilità prevista dalla riforma Cartabia “è illogica, perché non si può imporre la stessa durata a un processo semplice e a uno complicatissimo”. Come quelli per i grandi disastri, che il più delle volte comprendono decine di imputati, centinaia di parti civili e accertamenti tecnici molto estesi nel tempo, ma sono esclusi persino dai termini “allungati” a tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione. Francesco Cozzi è uno specialista del settore: è il capo della procura di Genova che ha seguito, tra l’altro, il processo sul crollo della Torre piloti e soprattutto l’indagine preliminare sul disastro del ponte Morandi, partita quasi tre anni fa e conclusa a fine giugno con 59 richieste di rinvio a giudizio. Nel mezzo, due incidenti probatori, una maxi-perizia da 467 pagine, centinaia di intercettazioni e 60 terabyte di materiale informatico depositati. Da pochi giorni ha lasciato l’ufficio per raggiunti limiti di età, ma continua a osservare da vicino i destini del “suo” processo, minacciato dalle prime prescrizioni che arriveranno già a ottobre del 2023.

Dottor Cozzi, che giudizio dà della nuova prescrizione allo studio del Governo?
Mi pare un meccanismo privo di logica, nell’ambito di un testo che in generale giudico adeguato, scritto, peraltro, da una ministra per cui provo rispetto e ammirazione. In base al testo uscito dal Consiglio dei ministri, l’omicidio colposo plurimo, il crollo doloso e l’omicidio stradale (tre delle principali accuse agli imputati per il disastro del ponte Morandi, ndr) diventerebbero improcedibili dopo due anni in Appello. Eppure, proprio per quelle fattispecie, nel 2016 il legislatore ha raddoppiato i tempi di prescrizione. Perché l’ha fatto? Perché sa che l’accertamento tecnico è complesso, basta pensare alla strage di Viareggio o al caso Thyssenkrupp. E i termini calibrati sul massimo della pena non bastavano: non certo per inerzia dei giudici, ma perché erano troppo brevi. Allora ci vuole coerenza: non si può, all’improvviso, far finta che questi non siano più casi complessi e costringere i giudici d’Appello a correre i 400 metri a ostacoli, sotto la minaccia dell’improcedibilità.

Secondo la ministra, così si assicura la ragionevole durata del processo.
Bisogna distinguere, però. La durata del processo, secondo me, è irragionevole quando una persona resta imputata per 15 anni perché il suo fascicolo è sepolto in un armadio e la sua causa non viene fissata. Quando invece il procedimento è molto complesso, come quello per il crollo del ponte, possono servire tanti anni per portarlo a termine anche se i magistrati non si fermano un attimo: non si tratta di casi semplici come, che so, un furto al supermercato o un omicidio ripreso da una telecamera. Quindi non ci si può fare molto, la durata lunga è inevitabile. Con la riforma, invece, si arriva a un paradosso: un reato con una prescrizione di 15 anni può diventare improcedibile quando mancano, magari, ancora sette od otto anni alla sua estinzione.

Come si tutelano gli imputati, allora?
Intervenendo sui tempi morti tra l’impugnazione della sentenza di primo grado e l’inizio del processo d’Appello ed evitando impugnazioni inammissibili. I primi sono il vero collo di bottiglia: in alcuni distretti possono passare anni. Il ministero deve fornire, come in parte ha già fatto negli anni scorsi, uomini e mezzi adeguati ai carichi di ogni Corte d’Appello, tararli in base ai carichi esistenti e a quelli esigibili e tenere conto dei processi di eccezionale complessità. Altrimenti ha ragione chi teme che in alcune sedi la riforma diventerà un’amnistia strisciante, e per giunta indiscriminata. Sempre per questo motivo, il conto alla rovescia dell’improcedibilità va fatto decorrere dalla citazione a giudizio in appello, e non dall’impugnazione della sentenza del grado precedente. L’obiettivo dev’essere quello di rendere giustizia ai cittadini, alle vittime dei reati ma anche agli imputati, garantendo loro il diritto a un processo di durata ragionevole, sempre, però commisurata alla complessità dei fatti da accertare.

Alla richiesta di rinvio a giudizio avete allegato un “calendario” con le date di prescrizione per ogni accusa. Le omissioni d’atti d’ufficio si estinguono nel 2023, i falsi nel 2024. Temete una mannaia sulle condanne?
Direi di no, l’importante è che restino in piedi le contestazioni più pesanti, quelle a prescrizione più lunga. Sono sicuro che i giudici genovesi porteranno avanti il dibattimento in modo egregio, come hanno sempre fatto, ma la vigilanza dell’accusa e delle parti offese, su questo, sarà massima. I colleghi che sostengono l’accusa hanno redatto il “calendario” proprio per questo: per evitare distrazioni che non devono esserci, come non dovrebbero esserci in alcun processo.

Sulla carta l’improcedibilità non vale per questo procedimento, perché il reato è antecedente al 2020. Alcuni avvocati però hanno già detto di voler sollevare il caso di fronte alla Consulta per chiedere un’applicazione retroattiva in quanto norma più favorevole al reo.
Una premessa: parlare di ricorsi quando non è ancora nemmeno iniziato il processo mi pare inopportuno, se non di cattivo gusto. In ogni caso, su questo non devono esserci equivoci. Serve una previsione di legge che stabilisca chiaramente se la norma è sostanziale (e quindi si applica sempre la regola più favorevole, ndr) o processuale (in questo caso si può limitare l’applicazione nel tempo, ndr). È inaccettabile l’idea di rimettere una decisione dagli effetti così pesanti alla giurisprudenza.

Lasciando da parte la prescrizione, un giudizio sugli altri aspetti della riforma?
La considero positiva nelle parti in cui semplifica il regime delle notifiche, l’udienza preliminare, incoraggia la giustizia riparativa e la sperimentazione di pene alternative al carcere. È una strada che a Genova percorriamo da tempo, con l’applicazione di molte più sanzioni sostitutive e messe alla prova rispetto alla media: siamo ai primi posti in Italia. Qui è nata l’elaborazione delle proposte che attuano il principio secondo cui la pena non è necessariamente il carcere.

E sul fatto che i criteri di priorità sui reati da perseguire siano indicati dal Parlamento?
Non sono contrario in termini assoluti, ma il tema è delicato. Basta guardare – ad esempio – il regolamento che di recente ha istituito la Procura europea, in cui questo compito è affidato al collegio dei procuratori, non certo alla Commissione o al Parlamento di Bruxelles. Bisogna evitare in ogni modo di ridurre autonomia agli uffici inquirenti, chiedendo, piuttosto, agli uffici stessi di essere trasparenti nell’indicazione delle proprie priorità. Anche questo, a Genova, lo facciamo da prima che ci venisse richiesto dalle circolari del Csm del 2017 e del 2020. E senza mai ledere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

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