Può sembrare bizzarro parlare di come risolvere la crisi climatica partendo dalle pubblicità, mentre scorrono sotto i nostri occhi le devastanti immagini delle alluvioni in Germania, catastrofe opposta e speculare ai cinquanta gradi del Canada e all’ondata di calore in America occidentale. L’angoscia che producono è enorme e intensa, così come la sensazione di essere totalmente vulnerabili, persino dove, in teoria, dai cambiamenti climatici si dovrebbe essere più protetti. Una sorta di balzo in avanti della crisi climatica, sempre più vasta, grave e indomabile.
Ma per cambiare un sistema che produce distruzione e morte bisogna tentare di andare oltre la logica dell’emergenza, oltre il panico. Cercare di capire quali sono le modifiche strutturali che andrebbero fatte, a livello istituzionale e poi individuale, per cercare di tracciare una strada di uscita che ci consenta di salvarci dalla crisi climatica e al tempo stesso provare ad essere relativamente felici, nonostante ciò che sta accadendo.
Bisogna quindi andare alle cause del cambiamento climatico: un’immissione sempre più massiccia di CO2 nell’atmosfera che, tradotto in soldoni, significa che il nostro modo di vivere, agire, mangiare è troppo energivoro e quindi non più sostenibile. Quando dico “nostro” mi riferiscono a quello occidentale, visto che, incredibilmente, le sole nazioni del G20 producono la quasi totalità delle emissioni mondiali. Parliamo dunque di uno stile vita basato quindi su un libero mercato che invita al consumo costante, in vista di una crescita che è unicamente produttiva, e dove la felicità è strettamente legata al benessere materiale. Dove ogni riflessione etica, spirituale è scomparsa, dove l’ossessione per la salute e per la longevità del corpo ha fatto dimenticare che abbiamo anche un’ “anima”, comunque la si voglia intendere. Dove si continua a concepire l’ambiente come qualcosa di separato da noi, quando invece siamo tutt’uno.
Ci tengo a chiarire che non c’è nessun moralismo in questo discorso. Non c’è perché, semplicemente, questo stile di vita fondato sull’acquisto e sul diritto al consumo non ha prodotto felicità. C’è stato, certamente, un miglioramento da condizioni di vita materiali miserabili e da malattie gravissime, con un allungamento della vita. Ma dal consumo relativo e moderato di beni necessari si è andati oltre. Un oltre nel quale, come spiegano i cosiddetti economisti della felicità, la ridondanza di oggetti e servizi di ogni tipo non ha prodotto alcun ulteriore benessere, mentre ha causato un danno ambientale sconfinato.
Il problema è qui. Ma per cambiare parzialmente vita occorre spiegare che, appunto, l’acquisto forsennato non ci rende felici. Ciò che invece ci rende tali sono l’amicizia, l’amore, la condivisione, la socialità, ma sono – anche – obblighi e diritti morali che oggi sembrano dimenticati. Basta guardare ai nostri figli, soffocati di “amore” e beni, privati del diritto, per così dire, ad avere limiti e doveri e quindi costretti ad essere infelici, a causa della ricerca infinita di gratificazioni materiali che, specie nelle classi più povere, è impossibile. Mentre in quelle più benestanti produce continui acquisti e acquisti di lusso e quindi aggrava la crisi ecologica.
Complice di tutto questo stato di infelicità è, appunto, la pubblicità. Guardo pochissima televisione quindi raramente vedo pubblicità, ma quando la incontro – anche in rete – resto basita dai toni sempre euforici e dalle promesse di estrema felicità che vengono proposte in relazione ad un acquisto. Prime fra tutte quelle delle macchine, associate a libertà senza fine, piacere, possibilità di spostamento senza limiti, ma non solo. Mentre da un lato scorrono le immagini di devastazioni ambientali e della crisi climatica, noi ci dobbiamo sorbire caroselli dove tutto sembra perfetto, non esiste alcun problema, tanto meno ambientale, e dove la gratificazione completa è legata al consumo.
La pubblicità induce desideri assolutamente effimeri e inutili, aumentando la convinzione delle persone che il benessere materiale equivalga alla soluzione di tutti i nostri problemi. Ma più si aumentano i desideri, più si produce infelicità e questo è un problema etico e al tempo stesso ambientale, perché la crisi climatica è prima di tutto una crisi culturale e bisognerebbe cominciare a dirlo con forza.
Per cominciare a scalfire il collasso ecologico bisognerebbe cominciare a limitare le pubblicità, specie quelle per i bambini, specie quelle nascoste nei videogiochi. Sanzionare appunto in maniera severissima chi pubblicizza prodotti in modo occulto o semi occulto, in primo luogo gli influencer, anche loro a mio avviso colpevoli dell’aggravarsi della crisi ecologica proprio a causa della sistematica e massiccia pubblicità, presente praticamente in quasi ogni loro post.
Bisognerebbe poi mettere limiti pesanti sulle pubblicità di prodotti ambientalmente dannosi, fermando il greenwashing spesso massiccio che spaccia per ecologici prodotti che non lo sono. Più radicalmente ancora, bisognerebbe ripensare il sistema pubblicitario e il senso stesso della pubblicità. Non è facile, perché fa parte di un sistema che sembra impossibile da modificare, quello nel quale stiamo vivendo ormai da decenni.
Un sistema che tuttavia non funziona. Ma per cambiarlo bisogna partire dalla modifica di un immaginario sbagliato e dall’abolizione di desideri superflui, per nulla dolorosa in quanto, appunto, si tratta di beni non essenziali alla felicità. Chi ha bambini piccoli, ancora non “plagiati”, lo sa bene. Per essere felici ai bambini serve soprattutto un pezzo di giardino o di campagna, nel quale esercitare la loro fantasia, magari con un amico. Eppure le pubblicità li riempiono di desideri inutili, facendo credere loro di aver bisogno di prodotti, per costruire i quali – qui il paradosso – si produce quell’anidride carbonica che distrugge i loro veri spazi di felicità. Rendendo le loro estati insopportabilmente afose, inquinando e surriscaldando quei mari in cui giocano, trasformando un temporale estivo, un tempo fonte di felicità e di gioco, in un potenziale portatore di morte e distruzione.