Rita Atria aveva avuto la forza di trasformare la sete di vendetta in bisogno di giustizia. Aveva avuto la forza di rinascere culturalmente, abbandonando dietro di sé la mentalità mafiosa nella quale era cresciuta. Aveva avuto la forza di resistere ad una madre che l’aveva maledetta per la sua decisione di parlare con gli “sbirri” delle cose di famiglia. Aveva avuto la forza di affidarsi allo Stato insieme a sua cognata, Piera Aiello, dopo che la mafia aveva massacrato padre e fratello. Quello Stato che aveva la faccia di Paolo Borsellino, che le “adottò” entrambe, proteggendole e riconoscendone il valore.

Ma tutta questa inimmaginabile forza non le bastò più dopo il 19 Luglio 1992, dopo la strage di Via d’Amelio, quando Cosa nostra le portò via per la seconda volta un padre. Resistette una settimana a quel dolore lancinante e senza consolazione, poi si uccise, il 26 Luglio del 1992, a Roma.

La memoria è “ortopedica” nel senso che ci aiuta a scegliere dove mettere i piedi, ci aiuta ad orientare il cammino, le scelte, l’impegno. La memoria di Rita è un punto fermo dell’agire di molti, ancora oggi. Rita e Piera (parlamentare e componente della Commissione parlamentare Antimafia) sono state tra le prime testimoni di giustizia in Italia, anzi, il concetto stesso di “testimone di giustizia” ha preso forma in quegli anni per distinguere il profilo di chi decideva di collaborare con lo Stato dopo una vita di delinquenza, da quello di chi decideva di informare lo Stato di crimini visti, subiti o appresi, senza averne però mai compiuti.

L’Italia all’inizio degli anni ’90, grazie al lavoro di Giovanni Falcone, si era dotata di una prima normativa rivolta ai collaboratori di giustizia, una normativa importante ancora oggi e proprio per questo ancora oggi oggetto di polemiche strumentali che mirano a minarne l’efficacia, ma non aveva una normativa dedicata ai testimoni di giustizia. Ci vorranno dieci anni e tante storie di coraggio e sofferenza per arrivare alla legge 45 del 2001 con la quale il Legislatore, integrando la normativa precedente, creava la figura del Testimone e decideva come proteggerla, sia dalla vendetta sia dalla solitudine.

Nella passata Legislatura il Parlamento ha approvato all’unanimità una riforma del sistema di protezione per i Testimoni di Giustizia, che ha introdotto importanti novità legate soprattutto al rapporto tra Testimoni e Servizio Centrale di Protezione, ed anche legate agli strumenti di sostegno socio-economico. Ma le leggi vivono di decreti attuativi, di regolamenti e (soprattutto) di prassi applicative cioè di quella routine che si genera a poco a poco tra coloro che sono deputati ad esercitare una certa legge. Le prassi applicative sono a loro volta figlie della cultura che si respira tra addetti ai lavori, dei pre-giudizi con i quali ci si approccia alle situazioni concrete che devono essere gestite.

Il sistema di protezione tanto dei collaboratori, quanto dei testimoni di giustizia, fa capo alla Commissione Centrale presso il Ministero dell’Interno, la quale a sua volta dispone del Servizio Centrale di Protezione che si occupa della quotidianità di questa popolazione che si compone di qualche migliaio di persone, molte delle quali sono minorenni.

La Commissione Centrale è normalmente presieduta da un Sottosegretario cui il Ministro conferisce la delega, attualmente si tratta del Sottosegretario Nicola Molteni, pilastro della Lega salviniana in Parlamento.

Dopo quasi trent’anni dalle stragi e dalla morte di Rita dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia delle responsabilità nel contrasto a mafie e corruzione che questa battaglia si può vincere, ma che si vincerà non tanto per il numero degli arresti e delle condanne: si vincerà per il numero di persone che decideranno di affidarsi allo Stato, anzichenò. Scegliere lo Stato, anzichenò, significa tante cose, dal pagare le tasse al denunciare i crimini, ma ha a che fare con un presupposto soltanto: la credibilità delle Istituzioni.

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