“Se avete del cibo nelle vostre borse siete pregati di lasciarle all’ingresso”. Dogod – The situation, la performance body mind centering di Barbara Berti, in anteprima all’ultimo Festival di Sant’Arcangelo 2021, ha una fondamentale e prosaica premessa. Perché in scena, oltre alla Berti stessa, a Marco Mazzoni e Rocio Marano, ci sono tre cagnetti: Rudi-Pistacchio, Boki e Marzia. Un chihuaua, un barboncino con una coda arcobaleno e una bulldog francese. Niente spettacolarizzante Corrida (televisiva), ma un esclamativo, sinuoso, ipnotico rituale di scena dove i corpi degli attori si fondono e non si distinguono più tra quelli umani e animali. Il confine culturale e sociale tra le specie finisce immediatamente dentro allo spazio inclusivo di una scena quadrata, pavimento centrale con tutt’attorno disposti paritari senza seggiole o gradini gli spettatori. Come scrivono gli autori nella descrizione del lavoro: “Le idee di divertimento, gioco e lotta inducono i partecipanti a navigare in flussi coreografici istantanei e interattivi”.
Berti, Mazzoni e Marano abitano subito lo spazio cercando di mapparlo silenziosamente e sensorialmente nel movimento e nella gestualità di una pratica che ricorda le flessuosità di molte posizioni yoga come una sorta di riacquisizione di un vuoto attraverso il pieno del proprio corpo. Un allargamento (in)visibile e uno dissolvimento percettivo allo stesso tempo che introducono l’entrata in scena graduale, uno per volta, a distanza di qualche minuto, dei tre cagnetti. Animali che, soprattutto per il chihuaua, si fondono platealmente in un tutt’uno di carne e spirito, aggrappati con forza e pensiero alle spalle di Mazzoni, ad esempio, poi lentamente passati di braccia su ventre, schiena e gambe di Berti e Marano. E mentre Mazzoni puntella continuamente il soffitto con finte pertiche allungabili, chiedendo (senza parlare) spesso allo spettatore di estrarne pezzi assieme a lui, la bulldoghina e il barboncino reiterano la scoperta olfattiva avvicinandosi di continuo agli spettatori attorno. Il movimento però porta ad una stasi, quasi centrale nei 35 minuti di Dogod, dove uomini e animali giacciono a terra immobili, silenti, accartocciati, organici l’uno all’altro.
Poi è l’abbaiare canino, controllato, richiesto, provato, a ridestare i sensi e il senso dell’abbraccio trasformativo, metamorfico, vivente, dove, come sostiene la filosofa statunitense Donna Haraway, citata dalla Berti nelle note di regia si ripensa “l’essere in grado di unirsi a un altro, di vedere insieme senza fingere di essere un altro”. Si esce da Dogod, un palindromo che mescola presenza canina e assenza/presenza teologica, con l’idea che un confine artistico è stato superato e indietro eticamente non si può e non si deve tornare. Per la cronaca: a fine spettacolo Rudi-Pistacchio, Boki e Marzia non hanno realmente una gran voglia di intrattenersi con gli spettatori che cercano la carezza o la vicinanza. E anche questo, è evidente, fa parte della transizione in essere dell’abbattimento di specie veicolata in scena.