Un uomo corre sulla pista di atletica dello stadio di Stoccolma. Avanza lentamente, senza fretta. Un passo dietro l’altro, un metro dopo l’altro. Con il respiro che si fa sempre più corto. Con i muscoli delle gambe che sferragliano a ogni movimento. Non ha neanche bisogno di voltarsi indietro per capire di essere solo. Niente compagni. Niente avversari. Solo il rumore dei tacchi delle sue scarpe che picchiano forte contro il suolo. Ancora. E ancora. E ancora. La gente che lo guarda stenta a riconoscerlo. Perché i capelli si sono fatti più radi, la pelle più grinzosa, il mento più aspro, sporgente. Il suo numero di gara è sparito. La sua maglietta e i suoi pantaloncini sono stati sostituiti da una camicia chiara che fa capolino da sotto un cappotto voluminoso. Quando taglia il traguardo un fotografo cattura il suo sorriso in uno scatto. Ha gli occhi chiusi. E le mani protese in avanti.
Quell’uomo si chiama Shizo Kanakuri. E in quel giorno del 1967 sta celebrando la sua personale liberazione. Perché quella maratona l’ha iniziata cinquantacinque anni prima. Alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Allora Shizo ha appena 21 anni. Ma il suo nome ha già iniziato a circolare con insistenza fino a superare i confini del Giappone. Tutto merito di un cronometro. L’ha fatto fermare a 2 ore, 32 minuti, 45 secondi. È il miglior tempo dell’anno a livello mondiale. Un primato che è diventato un affare di stato. Il Giappone no ha mai inviato un atleta alle Olimpiadi. Un embargo al contrario che ora è sul punto di crollare. Perché Kanakuri potrebbe davvero entrare nella storia. Ma, soprattutto, potrebbe portare lustro all’Impero. Una eventualità che pesa molto più dei meriti sportivi.
Alla fine Shizo viene inviato a Stoccolma. Solo che per raggiungere la Svezia ci impiega 18 giorni. Treno. Poi nave. Poi di nuovo treno. È un supplizio che sembra non finire mai. Il ragazzo arriva a destinazione senza il sostegno di un’alimentazione adeguata. E senza allenamento. Lo start è fissato per il 14 luglio. È una giornata caldissima. La temperatura supera i 32 gradi. L’aria bollente si annoda contro la gola degli atleti fino a farla bruciare, svuota i loro polmoni, sbriciola i loro muscoli. Gli organizzatori sono stati chiari: non sono ammessi rifornimenti. Né pause per buttare giù un po’ d’acqua. Una maratona che si trasforma ben presto in una gara a eliminazione. Shizo attacca fin da subito. Stacca gli avversari, allunga il gruppo, spegne le speranze degli altri. Poi a metà gara si piazza in testa insieme al sudafricano McArthur. Non gli basta. Il giapponese inizia a guadagnare terreno. Lotta contro sé stesso, contro quella vocina che gli ripete di fermarsi, di farla finita con quella follia, con quella sofferenza autoinflitta.
Shizo è da solo quando sbuca nel sobborgo di Sollentuna. Avanza spedito fino a quando davanti ai suoi occhi non si apre una scena tutta particolare. Una famiglia ha organizzato un picnic in giardino. C’è da mangiare. Ma soprattutto c’è de bere. Il podista si avvicina con la faccia stralunata dalla fatica. Nessuno gli dice di girare al largo, di andarsi a prendere quella medaglia. Anzi, il padrone di casa lo fa accomodare. Gli offre un succo di mirtillo, poi gli dice di sedersi un attimo per riposarsi. Shizo accetta. Chiude gli occhi. Si addormenta. Per ore intere. Dorme così profondamente che nessuno ha il coraggio di svegliarlo. Quando si riprende ormai è già sera. La gara è finita. Dei 68 partecipanti sono arrivati al traguardo circa la metà. McArthur ha vinto la medaglia d’oro.
L’occasione della sua vita è sfumata. Kanakuri non è triste. Prova un grande senso di vergogna. Anche perché per mandarlo alle Olimpiadi era stata organizzata una colletta. Shizo non sa che la polizia, non avendo più sue notizie, ha iniziato a cercarlo. Sta scandagliando la città. Ma senza successo. Così sale un treno. Poi su una nave. Poi su un altro treno. Avanti fino a completare il percorso inverso. Un viaggio che dai sogni di gloria porta alla realtà della polvere. Senza dire niente a nessuno, senza rovesciare sugli altri un po’ del dolore che lo ha riempito. In Svezia lo danno per disperso. Il suo nome diventa un piccolo caso. Gli anni passano. La Guerra Mondiale anche. Solo le ferite rimangono fresche.
Dopo 8 anni da quell’episodio Kanakuri torna a gareggiare. Ancora un’Olimpiade. Stavolta ad Anversa. Stavolta non più da protagonista. Shizo è arrugginito. Arranca, viene superato, diventa uno dei tanti. “Per la Maratona i giornali erano pieni di Giappone – scrive il Corriere della Sera in una cronaca dell’epoca – Ah, vedrete la sorpresa: un gruppo di divoratori della strada! La ripresa è venuta Shizo Kanakuri, il gran campione sul quale fondavano le maggiori speranze è arrivato sedicesimo“. Un disastro. Il podista torna a casa, si tuffa nell’oblio della quotidianità. Solo che il suo caso in Svezia è ancora aperto.
Nel 1962 la stampa di Stoccolma ha un’idea: perché non mandare un giornalista a stanarlo in Giappone? La caccia all’uomo si risolve quasi subito. Kanakuri è ancora a Tamana, la sua città natale. Ha ripreso il suo lavoro da insegnante delle elementari. Ha sei figli e una decina di nipoti. Ma la sua vicenda non è ancora chiusa. Cinque anni più tardi gli arriva una proposta. A freddo gli sembra piuttosto bislacca. Ma più ci pensa e più si convince del contrario. Shizo vola in Svezia. Arriva fino a quel giardino a Sollentuna. Poi inizia a correre. Per dieci chilometri. Con i piedi nelle sue scarpe di pelle, con il corpo avvolto da quel cappotto così spesso. Avanza lentamente sulla pista d’atletica dello stadio. Poi prova lo scatto negli ultimi metri. La sua pancia spinge il nastro dell’arrivo fino a farlo cadere a terra. È la fine di un limbo, la chiusura di un cerchio. Kanakuri termina la sua maratona con il tempo di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi, 3 decimi. In qualche modo si tratta di un primato. Ma soprattutto di una liberazione.