Viterbo. In un tardo pomeriggio afoso, mentre il Paese è attraversato dalle contestazioni per l’imposizione del Green Pass contro il Covid-19 e la politica è concentrata sulla riforma della giustizia, è avvenuto il prelievo forzato di un bambino di 7 anni, affetto da una grave patologia neurologica.

Il bambino viene portato via tra dolore e calura, tra il frastuono di piazze lontane e le polemiche faziose sui social quando gli sguardi sono rivolti altrove, distratti e mai attenti ai diritti dei più piccoli. Non è facile pensare ai bambini, richiede un impegno che nessuno è più in grado di prendere. Per guardare i bambini dobbiamo abbassare gli occhi, per osservare i loro volti dobbiamo piegarci sulle gambe, per ascoltarli dobbiamo avvicinarci alla loro bocca, tanto sono delicate le loro voci. Ci è richiesto un atto di umiltà che l’arroganza del potere non è capace di compiere.

Durante quel prelievo, c’è un dispiegamento di forze che le vittime di violenza possono solo sognare. Viene messo in campo quando una madre viene accusata di violare il dogma della bigenitorialità o di essere la strega alienante. Davanti all’abitazione che ospita una donna, un bambino e i suoi due nonni, ci sono vigili del fuoco, l’ambulanza e la polizia di Stato. Dopo aver prelevato il bambino perquisiranno casa e frigorifero.

Il nonno sta rientrando con la spesa quando si trova circondato dalla polizia che gli chiede di aprire la porta. Hanno la fiamma ossidrica e la useranno, se necessario. L’anziano consegna le chiavi. Gli agenti entrano e abbattono la porta della camera da letto perché la madre si è chiusa lì, stretta al figlio. Un bambino che era accudito, che non correva alcun pericolo e che ora, rosso in volto e con gli occhi spalancati, assiste al trambusto, allo schianto della porta prima di essere afferrato da estranei che lo portano via dall’abbraccio della madre. Che cosa può pensare un bambino di 7 anni in quei momenti? Che esperienza può fare del mondo degli adulti?

Secondo uno schema che si ripete dai tempi del prelievo del bambino di Cittadella, da quando la alienazione parentale e il dogma della bigenitorialità sono entrati nei nostri tribunali, i prelievi forzati proseguono. E accade spesso che siano le donne che hanno denunciato violenza a pagare il prezzo dell’allontanamento.

La madre del piccolo di 7 anni, che chiamerò Chiara, aveva fatto sei denunce al tribunale di Treviso. Tutte archiviate. Il tribunale civile, dopo una lunga battaglia legale tra i genitori, ha nominato un curatore e un tutore speciali, e alla fine ha disposto la collocazione del piccolo in una casa famiglia. Chiara temeva per la salute del bambino che ha una grave patologia neurologica, ed è scappata. Poi ieri è avvenuto il prelievo.

C’è qualcosa di distorto in una società che permette che finiscano sotto processo i legami affettivi tra madre e figlio e resta indifferente all’uso la forza per allontanare bambini che possono opporsi solo con la loro disperazione.

Da tempo la applicazione del costrutto della alienazione parentale con i suoi protocolli violenti, descritti dai loro stessi sostenitori con parole altrettanto violente, “resettaggio del bambino”, “terapia della minaccia” e “ablazione della madre”, è oggetto di critiche e mai, come in questo momento, l’indignazione è stata così alta. Si preannuncia una mobiltazione durissima e permanente nei prossimi mesi, mentre la sfiducia nella giustizia e nello Stato non è mai stata così profonda. Una frattura tra i tribunali e le cittadine di questo Paese vittime di violenza che si chiedono: “Ma se i tribunali non tutelano le vittime di violenza o i bambini, chi e che cosa stanno tutelando?”

Tra i magistrati c’è chi contesta la alienazione parentale, fautrice di rivittimizzazione secondaria. La Corte di Cassazione ha più volte criticato questo costrutto. La sentenza 13217 del maggio scorso ha bacchettato i giudici della Corte d’Appello di Venezia che avevano tolto la madre ad una bambina di 6 anni sulla base della solita Ctu che diagnosticava la sindrome di madre malevola. In una sentenza durissima la Suprema Corte ha paragonato l’alieneazione parentale al tatertyp, una teoria nazista in voga nella Germania di Hitler negli anni ’40, che condannava le persone per ciò che erano e non per ciò che facevano. E oggi basta essere una madre per finire sotto sospetto nei percorsi giudiziari.

Da mesi le madri a cui sono stati sottratti figli, riunite in diversi comitati, manifestano davanti a Prefetture, Tribunali e Questure di tutta Italia. La Commissione sul femminicidio presieduta da Valeria Valente sta esaminando 1500 fascicoli e relazionerà su casi di vittimizzazione istituzionale. La ricerca del Gruppo avvocate Dire è coerente con i risultati di un’altra indagine della Commissione sul femminicidio presentata il 16 luglio scorso, che rivela scarsa formazione e specializzazione dei magistrati e la rimozione della violenza nei procedimenti civili. I giudici continuano a confondere la violenza con il conflitto.

La Corte di Strasburgo in quattro anni ha condannato due volte l’Italia. Nel 2017 per il caso Talpis, poi nel 2021 per il caso della Fortezza dal Basso. Troppi pregiudizi e stereotipi tra i giudici. Dopo l’avvio della procedura di vigilanza rafforzata per la condanna Talpis, il Comitato dei Consiglio dei Ministri d’Europa ha espresso preoccupazione per l’elevato numero di archiviazioni nei casi di violenza domestica e ha chiesto dati che il Governo italiano non ha ancora consegnato. Perché? E’ semplice: non li ha. L’assenza di verifiche sui procedimenti giudiziari, sul numero degli ordini di allontanamento, sulle sentenze di condanna o sulle misure cautelari per violenza domestica, insieme all’elevato numero di archiviazioni, sono il triste primato della (in)giustizia italiana. Nel Paese dove le donne preferiscono tacere (come dar loro torto?) e le denunce sono pochissime, le istituzioni invitano a denunciare la violenza domestica.

Negli uffici pubblici si affiggono manifesti, frutto di costose campagne sociali fatte dal Governo, il parlamento promulga leggi che rafforzano pene contro i violenti, e poi discute una riforma della giustizia che rischia di cancellare processi. Anche quelli per violenza contro le donne. Tutto questo mentre resta in vita un sistema schizofrenico che tesse la tela dei diritti delle vittime di violenza e poi la disfa a colpi di riforme, di archiviazioni a go go e accuse di Pas. L’ordito e la trama di una regia che nega giustizia e respinge i cambiamenti nelle relazioni tra uomini e donne sono la traccia di una deriva autoritaria dove vige e vince la legge del più forte?

L’incitazione fatta alle donne di avere il coraggio di denunciare e l’assurdo biasimo per il loro silenzio diventano così un’irrisione maligna, una presa in giro per le vittime, i loro figli, per le attiviste che a fatica credono nella giustizia e per le avvocate che insistono a volerci credere.

Oggi a Roma c’è stato un sit-in promosso dal Progetto Medusa, il Comitato Madri Unite contro la violenza istituzionale e Maison Antigone e D.i.Re donne in rete vi ha aderito. La presidente Antonella Veltri ha chiesto: “Che cosa deve ancora succedere perché le ministre Cartabia e Lamorgese intervengano?”, ma gli sguardi evidentemente sono rivolti altrove, in alto, non sui bambini e i loro diritti.

@nadiesdaa

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