Non c’è niente di più effimero della storia. Soprattutto di quella che si scrive con le medaglie. Non fa in tempo a sedimentarsi che la sua verità è già diventata parziale, arcaica. Una bugia ammantata da realtà. Da quasi vent’anni Federica Pellegrini si diverte a prendere in giro la storia. Prima la mette nero su bianco, poi la smonta un pezzo alla volta, la aggiorna. Anzi, la relativizza. Il suo presente stravolge il suo passato. In continuazione. Sbriciolando record. Triturando avversarie. Una bracciata dopo l’altra, una boccata d’ossigeno dietro l’altra, ha trasformato la sua vicenda personale in romanzo collettivo. Non più campionessa semplice, ma ultima grande rockstar dello sport italiano. Nessuno come lei è capace di unire. Perché nessuno come lei è capace di dividere. O santa o eretica. Senza possibilità di appello. Con giudizi espressi possibilmente a priori. La Pellegrini è rimasta sempre persona senza mai trasformarsi in personaggio. E proprio per questo non è stata compresa appieno. Perché solo una cosa non viene perdonata agli atleti: diventare più grandi del proprio sport.
In quell’universo compresso fra un bordo e l’altro, in quella striscia di cinquanta metri per due e mezzo, è diventata la Divina restando sempre umana. Ha mostrato le due facce di tutte le medaglie che ha vinto. Gioia e sofferenza, trionfo e umiliazione, sicurezza e fragilità. Tutto mescolato insieme, sentimenti fluidi che non potevano essere divisi, ingredienti della stessa soluzione. L’acqua come ovatta liquida capace di cullare. Ma anche come amplificatore di una solitudine in grado di ferire. La bolla dei nuotatori è intermittente. Si crea e scoppia decine di volte nella stessa gara. I suoni esterni filtrano quando si prende aria fra una bracciata e l’altra, quando si cerca di dare sollievo a quei polmoni in fiamme. Il tifo come un canto delle sirene al contrario, una melodia che ti riporta alla realtà. I rivali sono un problema relativo quando tu sei il primo avversario di te stesso. A forza di vederlo quel fondo diventa una calamita. Ti chiama in continuazione. Fino a quando non inizi a toccarlo. Esattamente quello che è successo a Federica. È in quell’acqua che è avvenuta la sua autocombustione. Un paradosso. O forse no. Tutto cambia con una gara.
È il 17 agosto del 2004. Sono le Olimpiadi di Atene. Federica si trova racchiusa in uno stereotipo. Quello della ragazzina di 16 anni catapultata ai Giochi. La parola già ricorrente è “sogno”, il lemma più pronunciato è “favola”. Troppo banale, troppo melenso, troppo sciatto. Pellegrini si butta in acqua e inghiotte le avversarie. Tutte. Tranne una. Perché nella finale dei 200 sl non si accorge che la romena Camelia Potec l’ha sopravanzata in corsia uno. Chiude seconda. “Proprio non l’avevo vista”, dirà a fine gara. Poco male. Perché nella città dove sono nate le Olimpiadi tutti hanno già capito. Il futuro appartiene alla ragazzina di Mirano. Solo che l’incipit rischia di diventare anche finale. Federica si trasferisce a Milano. Sente la pressione. Vede il suo corpo cambiare. Non si riconosce più. La sua bolla sembra essere scoppiata, il suo mondo sembra essere stato fagocitato da verso di Cesare Pavese: “Vale la pena essere solo per essere ancora più solo?”. La giornata diventa un incubo fatto di fame e di sensi di colpa. Tutto passa in secondo piano. Almeno per un po’. Perché l’avversario da battere di chiama bulimia.
Qualcuno inizia a pensare che Federica sia una meteora, una stella destinata a spegnersi in fretta. Si sbagliano. Quattro anni dopo le Olimpiadi traslocano da Atene a Pechino. Difficile trovare due luoghi più distanti. Non solo geograficamente. È cambiato tutto. Tranne Federica. Stavolta nei 200 stile libero non vince l’argento. Ma direttamente l’oro. La stella cadente è diventata orgoglio nazionale. D’altra parte lo aveva detto Flaiano: “Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”. Pellegrini diventa qualcosa di inedito, di mai visto prima. Muscoli e grazia, forza ed eleganza riescono a convivere nel suo corpo. Così finisce per restare incastrata in un soprannome. La chiamano la Divina. Eppure l’errore è palese. Perché in Federica non c’è niente di sovrannaturale. Al contrario, lei è umana. Forse addirittura troppo per quel tipo di narrazione che diventa carta moschicida per gli atleti. Prima di ogni gara sente crescere l’insicurezza. Anche se poi vince. Anche se alla fine domina. Nella sua testa prende forma un’immagine. È chiusa in una stanza dove poco o poco inizia e entrare acqua. Ancora. E ancora. E ancora. Fino a quando non riesce più a respirare. Un incubo nel cassetto che sembra uscito da “The Love Song of J. Alfred Prufrock” di TS Eliot: “Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare, Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune, finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo”.
Gli attacchi di panico come compagni di viaggio in un mondo dove ogni incertezza rischia di essere pagata cara. La sensazione di soffocamento infiamma la sua gola per qualche mese. Nel marzo 2009 si ritira dagli Assoluti di Riccione. Poi nei 400 sl agli Europei del 2010. A volte per capire quanto è profondo un abisso bisogna sprofondarci dentro. I raggi di luce cominciano a filtrare lentamente. Federica lavora con un mental coach e ritrova la forza. Ricomincia a vincere. Instaura di nuovo la sua dittatura. La contabilità dei suoi successi è così lunga da diventare quasi volgare: un oro olimpico, 6 mondiali, 7 europei, un’infinità di argenti e bronzi. Senza dimenticare anche il dominio in vasca corta. Bastian contraria fin da piccola, è andata oltre la dimensione passeggera finendo per aprire un’era. Sempre viaggiando in direzione ostinata e contraria. Anche quando i suoi amori sono diventati piombo caricato sulla sua schiena, anche quando il gossip ha fatto irruzione nelle pagine di cronaca, anche quando le frizioni con i suoi allenatori sono diventati non fatti di cronaca ma pretesti per emettere un giudizio. C’è voluto un programma televisivo come Italia’s Got Talent per farci scoprire la sua vera essenza, per raccontarci la sua naturalezza, per abbattere quella sovrastruttura costruita negli anni. Così come c’è voluta l’impresa di stanotte per ricordarci che la Pellegrini è una donna che ormai può trionfare anche senza dover vincere. Domani mattina prenderà parte alla quinta finale olimpica della sua vita. Mai nessuna come lei. Le speranze di medaglia non sono altissime. Ma per una volta quello che conta non è l’arrivo, ma la partenza. Anche questo è un piccolo miracolo.