Le vittime raccontano di una spedizione punitiva avvenuta il 25 maggio 2020 in una casa di Trebaseleghe e condotta da Arshad Badar, a capo della società che li reclutava. "Sono arrivati a portare mia moglie e i miei figli in una caserma in Pakistan - racconta uno di loro - Mi hanno detto che li avrebbero liberati solo se avessi ritirato la denuncia per le violenze subite"
Il lavoro e la violenza. L’indagine che a Padova ha portato in carcere nove pakistani e ai domiciliari due dirigenti di Grafica Veneta svela una realtà in cui lo sfruttamento della manodopera proveniente dai Paesi asiatici s’intreccia con metodi coercitivi per evitare che qualcuno si ribellasse e si rivolgesse ai sindacati. La verità spunta dai verbali riempiti da otto cittadini pakistani, Nalain, Mudassar Muhammad, Shahzaib, Hafiz Mohammad, Iftikhar Ahamad e Asad. Raccontano di una spedizione punitiva avvenuta il 25 maggio 2020 in una casa di Trebaseleghe dove erano ospitati. Arshad Badar, a capo della società che reclutava gli operai per conto di Grafica Veneta, aveva preso in affitto un appartamento con sette locali pagando 800 euro al mese, ma si faceva dare dai 120 ai 150 euro da ognuno dei lavoratori. Considerando che in certi periodi venivano stipate anche 20 persone, è evidente che guadagnava già dalle pigioni, oltre che dalle trattenute sulla busta paga o grazie al pagamento solo di una parte delle ore di lavoro effettuate dai reclutati.
Un verbale tra tutti, quello di Muhammad, sottoscritto il giorno dopo il pestaggio, vittima anche della rapina del cellulare e di documenti, oltre che di sequestro di persona. Riconosce alcuni dei suoi aggressori, ora arrestati. “Dal 30 aprile 2020 io e i colleghi non venivamo più impiegati per attività lavorativa. Trascorsi una decina di giorni senza lavorare, chiedevamo chiarimenti al titolare Badar in merito alla nostra posizione. Ci comunicava che il nostro contratto era stato revocato e che dovevamo abbandonare l’abitazione senza però ricevere alcuna comunicazione scritta del licenziamento, benché richiesta. Noi chiedevamo di ricevere i soldi che ci spettavano per le ore lavorative svolte in eccedenza, nonché per tutte le altre competenze. Non abbiamo neanche ricevuto una risposta. Allora decidevamo di rivolgerci al sindacato, a Padova, dove ci recammo in autobus il 25 maggio alle 9.30. In quella sede aprivamo una vertenza nei confronti del nostro titolare. Siamo partiti in cinque per far rientro a casa. Alle 14-14.30 rientravamo e ognuno si recava nelle proprie camere. Nel momento in cui mi accingevo ad allontanarmi dalla mia stanza facevano ingresso due persone che aggredivano fisicamente due di noi, mentre io che mi trovavo nel corridoio venivo raggiunto da altre 4-5 persone”.
Un vero sequestro. “Subito venivo legato mani e piedi con delle cinture, corde e lacci. Iniziavano a picchiarmi con calci, pugni e tirandomi alcuni oggetti addosso. Capivo che anche gli altri due avevano subito il mio stesso trattamento. Dopo avermi immobilizzato e picchiato mi sottraevano il telefono cellulare Apple e il mio zaino in tessuto di colore nero contenente il mio permesso di soggiorno, un altro telefono cellulare, documentazione inerente al rapporto lavorativo con la B.M Services, buste paga, copia degli atti relativi alla vertenza sindacale. Poi mi trasportavano di forza in una camera da letto situata al piano terra dove venivo riunito con gli altri connazionali che si erano rivolti con me al sindacato. Erano tutti legati mani e piedi. Io contavo circa una ventina di aggressori, uno di questi so che abitava a Loreggia, mentre altri 3-4 a Lavis (in Trentino, ndr)”.
Vengono tutti portati via in carovana. “Dopo circa un’ora o un’ora e mezza venivamo separati e fatti salire di forza su tre mezzi sui quali venivano caricati dei borsoni e alcuni dei nostri effetti personali raccolti a caso. Si trattava di un furgone e due auto, una Bmw e una Mercedes. Io e altri quattro venivamo caricati sul furgone ove prendevano posto anche tre degli aggressori, mentre gli altri aggrediti venivano caricati sulle due auto. Il furgone partiva seguendo la Bmw, mentre l’altra auto chiudeva la colonna in direzione di Trebaseleghe. Durante il tragitto venivamo fatti scendere in località diverse e a chi scendeva veniva mostrato il contenuto dei borsoni al fine di far prelevare gli oggetti di proprietà. Io non ho trovato niente e sono stato lasciato in una strada secondaria nei pressi di un’abitazione da cui è uscito un signore italiano al quale chiedevo aiuto. Lui contattava il 118”. Arriva un’ambulanza e viene accompagnato al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Dolo. Quel giorno saranno in dieci a farsi medicare.
Ci sono altre drammatiche testimonianze. Hamas racconta: “Badar ordinava agli altri di legarmi e di portarmi in casa. Una volta legato con le braccia dietro la schiena, mi portavano dentro dove in due mi picchiavano violentemente con calci ed anche con una scarpa procurandomi un trauma cranico e policontusioni. Ora che ricordo, Arshad Badar mi ha stretto a lungo il collo con le sue mani fin quasi a soffocarmi”.
I vertici di Grafica Veneta non seppero nulla del pestaggio. Intercettati, sono i pakistani a parlarne tra loro. Il solito Badar dice: “Avevo un po’ di casino con gli operai in fabbrica, li abbiamo picchiati e mandati via. Questi nel momento in cui capiscono di essere in regola in Italia iniziano a creare problemi”. Parlando, invece, con Giorgio Bertan, amministratore delegato di Grafica Veneta, lo stesso Badar spiegava solo di aver risolto il problema, senza entrare nei dettagli.
Dai verbali emerge una rete di intimidazione che fa sponda con le famiglie d’origine, in Pakistan. Uno dei testimoni racconta: “In merito alle minacce nei confronti dei miei parenti in Pakistan da parte di Badar, circa 2-3 mesi fa lo stesso si è presentato con 7-8 persone a casa di mio padre e ha raccontato che gli avevo rubato denaro e che lo avevo denunciato. Ha offerto a mio padre 5mila euro e la promessa che mi avrebbe ripreso a lavoro se ritiravo la denuncia. Io a mio padre ho raccontato per la prima volta tutto quanto, dicendogli delle botte prese, del sequestro, delle violenze subite. Poi Badar, insieme ad altre persone, è andato a casa dei miei suoceri, minacciando gravi ripercussioni nei confronti di mia moglie e dei figli se non avessi ritirato la denuncia. In Pakistan quando si prende in affitto un appartamento bisogna denunciare alla polizia. Fatto sta che dopo qualche giorno la polizia è andata a casa dove stava mia moglie e, insieme ai due figli, è stata portata in caserma dove è rimasta tutta la notte. La polizia le ha detto che io qui in Italia avevo fatto una denuncia contro Babar e che per stare tranquilla io avrei dovuto ritirarla. Badar avrebbe poi dovuto dare la conferma che io avevo ritirato le accuse. Vista la gravità della situazione, io ho veramente tanta paura per mia moglie e i miei figli considerando che Badar ha molti agganci nella politica e nella polizia pakistana”.