Karapiru (“Falco“) Awá è morto di Covid-19 nella sua comunità, nell’Amazzonia brasiliana, il 16 luglio. Era un uomo di straordinaria cordialità e gentilezza, virtù ancora più eccezionali se si considera la tragedia indescrivibile che la “nostra” società gli aveva inflitto. La sua resilienza e la sua forza furono messi a dura prova quando i coloni massacrarono tutta la sua famiglia. Karapiru visse poi solo nella foresta per dieci anni, ma lo attendeva una felicità inaspettata…

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Alla fine degli anni 60, fu scoperto il più ricco giacimento di ferro del pianeta nel territorio degli Awá, nello stato del Maranhão.

La scoperta innescò lo sviluppo del Gran Carajás, un progetto agro-industriale finanziato da Usa, Giappone, Banca Mondiale e Cee, che accelerò notevolmente la distruzione della terra ancestrale della tribù. Furono costruite una diga, fonderie d’alluminio, una linea ferroviaria lunga 900 km
 e strade asfaltate che distrussero immense fasce di foresta pluviale primaria. Nacquero i primi allevamenti di bestiame e nel suolo della foresta fu scavata una voragine così vasta da poter essere vista dallo spazio: nel corso del tempo sarebbe diventata la miniera a cielo aperto più grande del mondo.

Moltissimi esterni si riversarono nel territorio: per i coloni, gli Awà erano un ostacolo fastidioso, e così cominciarono ad ucciderli. Alcuni ricorsero a tecniche fantasiose: molti Awá morirono dopo aver mangiato farina mescolata a veleno di formica, “regalo” di un agricoltore locale. Altri, come Karapiru, furono semplicemente colpiti con armi da fuoco là dove si trovavano: a casa, davanti alle loro famiglie.

Dopo l’attacco, Karapiru credette di essere il solo membro della sua famiglia sopravvissuto al massacro. I killer avevano ucciso sua moglie, il figlio, la figlia, la madre, fratelli e sorelle. Un altro figlio era stato ferito e catturato sotto i suoi occhi. Traumatizzato, fuggì nella foresta con un proiettile conficcato nella schiena. “Non c’era modo di curare la ferita. Non riuscivo a mettere nessuna medicina sul dorso e soffrivo molto – raccontò tempo fa a Fiona Watson di Survival International – Il piombo bruciava nella mia schiena, e sanguinavo. Non so come abbia fatto a non riempirsi d’insetti”.

Per i dieci anni successivi, Karapiru visse in fuga. Camminò per quasi 650 km nello stato di Maranhão, attraversando foreste, colline e pianure. Era terrorizzato, affamato e solo. “Fu molto dura – disse a Fiona – Non avevo più una famiglia, e nessuno con cui parlare”. E quando il dolore e la solitudine diventavano troppo forti – “a volte non mi piace ricordare tutto quel che mi è accaduto” – si ritrovava a canticchiare o a parlare tra sé e sé.

Poi, un giorno, Karapiru fu avvistato da un contadino alla periferia di una cittadina, ai confini dello stato di Bahia. Stava camminando in una zona di foresta bruciata, portava con sé un machete, qualche freccia, un po’ d’acqua e un pezzo di cinghiale affumicato. Era triste ed esausto. Aveva trascorso dieci anni fuggendo da tutto e tutti, ma non dal suo dolore.

Presto si diffuse la notizia che era emerso dalla foresta un uomo solitario, “sconosciuto” e che parlava una lingua che nessuno poteva comprendere. Dopo aver cercato invano di comunicare con lui attraverso vari interpreti indigeni, le autorità fecero un ultimo tentativo portando da lui un giovane uomo Awá di nome Xiramukû. L’incontro con Xiramukû, dopo dieci anni di dolore e solitudine, fu quanto di più inaspettato per Karapiru. Non solo il giovane comprendeva la sua lingua, ma si rivolse a lui con una parola awá ben precisa che cambiò istantaneamente la sua vita: “padre”. L’uomo che stava di fronte a Karapiru era il figlio che aveva creduto morto.

Xiramuku convinse il padre ad andare a vivere con lui nella comunità awá di Tiracambu, dove poi si risposò. Amato dai suoi cari, era diventato una figura centrale nella comunità: un padre, un nonno, un eccellente cacciatore, e un maestro di valori e conoscenze uniche della foresta, che condivideva con tutti. Animato dal dolore, dal trauma, da un profondo rispetto per la foresta e dalla preoccupazione per il benessere dei suoi parenti incontattati, Karapiru è sempre stato pronto a protestare, a fianco dei suoi parenti e di altre tribù. Prima, per chiedere lo sfratto di trafficanti di legname e allevatori che avevano invaso i territori awà e stavano distruggendo la foresta a un ritmo vertiginoso: invasori che vennero finalmente sfrattatati nel 2014 a seguito di un’intensa campagna internazionale condotta insieme dagli Awá e da Survival International.

Più di recente, per contrastare le pericolose politiche del governo Bolsonaro che, manovra dopo manovra, continua a promuovere un vero e proprio “genocidio legalizzato” dei popoli indigeni del paese e il furto delle loro terre. Non solo, mancando di proteggere gli indigeni dagli invasori e bloccando i piani sanitari necessari a combattere il Covid-19 tra le loro comunità, il Presidente Bolsonaro sta di fatto incoraggiando la diffusione della pandemia.

Karapiru partecipava alle proteste con il suo arco e le sue frecce, le braccia decorate con piume di avvoltoio e tucano, e tanta energia e affetto per coloro che lo circondavano e per la vita per cui combattevano. Osservatore attento e curioso, Karapiru riusciva a comprendere molto bene le persone che incontrava, e la differenza tra gli invasori e gli alleati esterni. Quando qualcuno visitava la sua casa, lo accoglieva con calore, con un sorriso contagioso e un colpo di mano sicuro sul suo petto mentre salutava “Karapiru, Katu, Katu? (Sono Karapiru, tutto bene, e tu?)”.

Se vuoi contribuire a combattere le atrocità che hanno segnato la vita di Karapiru, unisciti alla campagna di Survival International per fermare il genocidio in Brasile #StopBrazilsGenocide. Sappiamo che il desiderio di Karapiru era che quanti più alleati indigeni e non-indigeni aiutassero il suo popolo a fermare la morte e la distruzione. “L’invasione dei Bianchi nel territorio awá non è una cosa buona, non ci piace” ci ha detto una volta…

http://www.survival.it/

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